Come se al governo dello Yemen non bastasse fare il giocoliere con una rivolta sciita a nord, con un movimento secessionista agguerrito a sud e con l’edizione più pericolosa di al Qaida nel mondo – secondo i servizi americani gli estremisti qui alle porte dell’Arabia Saudita sono 700, in Pakistan 300 – ora il contagio democratico tra gli arabi sta investendo in pieno il Paese. Ieri, dopo la tradizionale preghiera del venerdì, la manifestazione semipermanente accampata nel centro della capitale ha provato a espandersi oltre i muri di sicurezza eretti frettolosamente dal governo, ma la repressione, affidata ad alcuni clan fedeli al presidente venuti da fuori città, è sfuggita tragicamente di mano. Gli uomini dei clan hanno sparato dalle finestre e dai tetti e hanno ucciso 52 persone disarmate sotto gli occhi della polizia.
La rivolta in Yemen, proprio come negli altri paesi, per ora è una rivolta di popolo, l’islam c’entra poco o nulla. Il prezzo della farina è raddoppiato e la gente è scesa in piazza, o meglio, l’hanno fatto i giovani, il sessanta per cento ha meno di 25 anni ed è facile indovinare che cosa pensa di un rais ultrasettantenne che da 32 anni tiene il paese in condizioni da sottosviluppo. Lo slogan che risuona nelle piazze è: «Il popolo vuole abbattere il sistema». Non suona come un annuncio di guerra santa.
Ma a differenza degli altri paesi arabi in ebollizione, Tunisia, Egitto, Libia, Bahrein, dove per ora al Qaida fa soltanto la parte dell’orco cattivo (tutti ne hanno paura ma non c’è veramente), lo Yemen è davvero infestato da gruppi che si proclamano leali a Bin Laden. Gli yemeniti hanno partecipato in massa alla guerra dei mujaheddin in Afghanistan contro i sovietici, hanno risposto volenterosi agli appelli affissi in pubblico alle porte delle moschee per andare a combattere in Iraq tra il 2003 e il 2007 e in patria hanno tenuto alto il nome della loro reputazione. Prima al servizio del governo, che li mandava come truppe irregolari ma feroci contro i ribelli sciiti e in cambio chiudeva un occhio sulle loro attività, poi, con un rovesciamento totale di fronte, contro. Oggi al Qaida nelloYemen – ma il nome ufficiale è al Qaida nella Penisola arabica, perché raccoglie anche gli esuli sauditi – mette a segno almeno tre attacchi ogni settimana contro i soldati, la polizia e le istituzioni. Ma a fare notizia fuori, ovviamente, sono gli attentati finora soltanto provati contro gli aerei di linea diretti verso l’America.
Gli analisti escludono che al Qaida, per sua natura clandestina, ultraconservatrice e antidemocratica, possa saldarsi al movimento che agita le piazze, è pacifista e aspira alla modernità. Piuttosto, si chiedono se questa situazione di instabilità sfiancante del paese non finisce per favorire comunque gli estremisti. Già la conferenza dei cosiddetti Friends of Yemen, gli stati donatori che aiutano il governo a lottare contro il terrorismo con un munifico programma di finanziamenti, è stata rimandata: si può appoggiare un presidente che fa sparare sulla folla? E gli Stati Uniti, che nel 2011 dovrebbero aiutare il regime con 300 milioni di dollari, ora sono in una posizione imbarazzante.
Del resto, la scorsa estate, uno dei colpi più duri alla credibilità già esile del governo di Sana’a era stata una rivelazione via Wikileaks proprio sulla collaborazione con Washington contro il terrorismo: gli yemeniti si erano assunti la responsabilità di due bombardamenti americani e, secondo i cablogrammi, lo avevano fatto con ridanciana leggerezza, confidando che il Paese avrebbe creduto alla versione ufficiale.