I precari pagano una pensione che mai avranno

I precari pagano una pensione che mai avranno

Gli italiani prossimi alla vecchiaia possono stare tranquilli, la loro pensione è garantita. Ad assicurare le prestazioni previdenziali saranno i lavoratori più giovani. Quelli con contratti atipici e parasubordinati, soprattutto. Gli stessi che continuano a versare contributi ma non conseguiranno mai i requisiti minimi per poter accedere al trattamento pensionistico. Gli schiavi di oggi. E i nullatenenti di domani.

«Se i precari sapessero a quanto ammonta la loro pensione rischieremmo un sommovimento sociale» avrebbe detto lo scorso ottobre il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua (che ha prontamente smentito). Ma l’ingiustizia nei confronti dei parasubordinati rischia di essere persino peggiore di un assegno sociale da poche centinaia di euro. Oggi gran parte dei contributi dei lavoratori atipici sono versati a «fondo perduto». In poche parole, non daranno mai luogo a un trattamento pensionistico. E vengono utilizzati dagli enti previdenziali per far fronte alle pensioni di chi ha già maturato i requisiti.

Per trovare una soluzione al problema, a Montecitorio è stata depositata da circa tre anni una proposta di legge. Un documento – di iniziativa dei sei deputati radicali – per permettere a tutti i lavoratori che non arriveranno a maturare una pensione, di riavere almeno i contributi versati. Difficile non essere d’accordo, eppure la Camera sembra non aver particolarmente apprezzato il progetto. È interessante ripercorrere l’iter parlamentare del disegno di legge: dal 20 ottobre 2008, giorno di trasmissione alla Commissione Lavoro, il documento non è mai stato preso in esame. Mai calendarizzato. Mai discusso, neppure una volta. Il motivo è semplice: «La gestione dei lavoratori parasubordinati presso l’Inps è divenuta una vera e propria “gallina dalle uova d’oro”».

La gallina in questione è la Gestione separata. Il fondo pensionistico dell’Inps riservato a lavoratori con contratti di collaborazione a progetto, titolari di borse di studio per i dottorati di ricerca, lavoratori autonomi di ordini professionali che non hanno una specifica cassa previdenziale – persino lavoratori a domicilio – introdotto dalla riforma Dini del 1995. Un fondo estremamente redditizio. Stando al documento depositato in Parlamento, dal 1996 al 2004 la Gestione separata dell’Istituto previdenziale italiano ha accumulato una situazione patrimoniale pari a 18 miliardi di euro. «I suoi saldi di esercizio (dal momento che incassa fior di contributi e paga poche pensioni) sono in attivo per alcuni miliardi di euro l’anno». Risorse che potrebbero essere accantonate per garantire la tranquillità economica di chi le ha versate. E che invece vengono utilizzate per pagare le pensioni in essere. Nessuna scorrettezza formale: poiché l’Inps ha un bilancio unico, non c’è alcun limite nei trasferimenti da una gestione all’altra.

Intanto i precari – almeno quelli con regolare contratto di lavoro – pagano. L’aliquota contributiva prevista dalla riforma Dini per i lavoratori atipici avrebbe dovuto essere del 19,5 per cento. Ad oggi – complice la necessità di fare cassa dei governi che si sono succeduti nel corso degli anni – ha superato il 26 per cento. E la previdenza sociale diventa sempre più un miraggio. Per accedere alla pensione di anzianità – così come previsto dal sistema contributivo applicato ai più giovani – sono necessari 35 anni di contributi. Un obiettivo irraggiungibile per la maggior parte dei parasubordinati. Giovani costretti a passare da un contratto all’altro. Che nella migliore delle ipotesi hanno iniziato la propria carriera con un’occupazione in nero. Lavoratori di serie B, sulle cui spalle poggia la sostenibilità della nostra previdenza sociale. 

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