MILANO – «Ma qui funziona sempre così?», chiede il cronista dell’Independent, agitando la chioma bionda. «Mai vista una cosa simile», rispondono i colleghi italiani della giudiziaria, «Neppure durante Tangentopoli».
Benvenuti al Tribunale di Milano, prima corte d’Assise d’appello, quarta sezione penale. Dentro il palazzaccio, si celebra la prima udienza del processo “Ruby”, a carico del premier Berlusconi. Mesi di rotative impazzite e bit hanno nutrito giornali di carta e testate digitali. Intercettazioni, colpi di scena, rivelazioni e agnizioni che neppure un feuilleton o una soap opera oltre Oceano. Tra due transenne rimediate in tutta fretta scorre, come un fiume imbizzarrito, una nutrita rappresentanza della stampa italiana ed estera. La fila di cronisti, pensata come rigorosa, s’agita per le intemperanze dei colleghi spazientiti. Fermi tutti. «C’è la chiamata nominale». «Ma che è?», chiede un giornalista romano. «Ci chiamano uno per uno per entrare in aula!», gli risponde un altro, tesserino professionale in mano.
Quattro carabinieri dirigono il traffico e contengono le intemperanze: «Su, su, signori. State buoni, entrate tutti, un poco di pazienza». Un appuntato segna su un foglio di carta nominativo e testata. Si entra a botte di dieci. Si ride, sghignazza, commenta, in un clima da gita scolastica. «Sembra di essere tornati al liceo», dice qualcuno, «No, alla selezione per entrare nel locale fighetto», lo corregge un altro. Tre colleghi stranieri, ingannando l’attesa, aprono un tavolo di confronto sul “conflitto d’attribuzione”. L’americano dice che non ha capito di che diavolo si tratti, quello francese gli chiarisce tutte le fasi procedurali. Come nelle barzellette, l’intervento dell’italiano chiude la discussione: «Non preoccupatevi: non ci abbiamo capito un c… manco noi».
L’aula dove si celebra la prima udienza Ruby, che ha incollato come carta moschicida tv e stampa da tutto il mondo, è la stessa di tanti celebri maxiprocessi, come quello Enimont. Solo, tinteggiata di fresco. I gabbioni laterali che costeggiano la sala sono coperti da robusti teli grigi, ignifughi. Circostanza insolita: di norma ospitano cronisti (quando i posti a sedere non bastano), oltre che imputati. Per questo molti colleghi chiedono ai carabinieri che cosa succeda. Gli agenti tacciono. I rumors in aula indicano che è stata precisa raccomandazione del premier: in modo che non s’associasse, al suo nome, l’immagine visiva del gabbio. Il collega della Bbc scuote la testa: «Ma che gli frega? Tanto le telecamere e le macchine fotografiche non possono entrare». Qualcuno gli ricorda che, però, l’ingresso al pubblico è consentito. Vuoi mica che qualcuno imprima sulla retina le sbarre?
Di pubblico, a dir la verità, ce n’è pochino. Qualche freak che segue tutti i processi c’è – è una forma di perversione: “Guardare in faccia l’assassino”, recitava la canzone di un noto cantautore italiano. La claque attesa di “Meno male che Silvio c’è” è invece molto meno ricca del previsto. Qualcuno deve averli avvisati che “Silvio non c’è” e se ne sono stati a casa. Oltre alle consuete facce della stampa giudiziaria, anche qualche star del mestiere, il cui arrivo è preceduto da una scia di pettegolezzi e lazzi che neppure le comari sedute sui gradini assolati di un paese del Sud. C’è Natalia Aspesi, c’è la zazzera brizzolata di Beppe Severgnini, e si è seduto anche qualche volto noto dei tg nazionali, ma senza telecamere.
Il procuratore capo Bruti Liberati entra in aula, sorride e s’accerta che i cronisti siano comodi (è lui che coordina l’inchiesta affidata alla Bocassini e ai pm Pietro Forno e Antonio Sangermano). Gli agenti chiedono se i cronisti vogliano acqua, per poi raccomandare che i cellulari siano spenti. Veto rigorosamente violato, tutti smanettano tranquillamente sul BlackBerry. Il trillo della campanella interrompe il chiacchiericcio. In un paio di minuti s’esaurisce la ragione che ha costretto qui centinaia di testate italiane ed estere. «Udienza rinviata al 31 maggio».
In luogo di Ghedini e Longo, legali del premier, c’è l’avvocato Giorgio Perroni, cui stringe la mano la Bocassini. Il premier è assente per motivi istituzionali, la parte lesa – Ruby – la rappresenta il suo avvocato, Paola Boccardi. «Udienza di smistamento», si chiama, tecnicamente. Nessuna questione preliminare, neppure sulla competenza, solo la calendarizzazione delle prossime tappe del processo e il deposito delle richieste di costituzione parte civile. Mentre il capannello di cronisti si disperde, un agente, mentre esco dall’aula, mi fa: «Embé? Tutto qua?». No. Non è tutto qua.
Fuori, a presidiare il Palazzaccio, c’è un altro circo. Sfilano, davanti alle tv di mezzo mondo, i prodotti, assai creativi, del popolo di santi e navigatori che è l’Italia. I cartelli, innanzitutto: «Silvio tienilo duro», «Silvio la sai l’ultima? Che sono cazzi tuoi», «Sono minorenne e vado a spasso con mamma e papà», «Difendiamo la magistratura dalla berlusconiana sozzura!». Spillette sui 150 anni di Unità d’Italia appuntate un po’ a casaccio, picchetti, maschere, striscioni, gazebo, magliette. Una sfiorata colluttazione coinvolge una corpulenta signora che bercia slogan antiberlusconiani, ed è qui per chiarire che «è stufa», e una militante del Cav. Gli agenti le dividono, manco fossero due teenager che si strappano i capelli per il manzo di turno. Quattro non identificati tamarri griffati, abbronzati, fasciati da occhiali da sole a maschera e con indosso jeans che ne rivelano le mutande, posano davanti alle telecamere digiune di notizia. Dev’essere una straordinaria trovata di marketing. Nessuno chiarisce chi è o chi lo manda, ma indossano cartelli che recitano “La bella vita te la pago io!”, con l’immagine della gnocca di turno, l’indirizzo di un sito web e una formula pubblicitaria che reclamizza un assorbente per il ciclo femminile. «L’udienza è stata rimandata», annuncia uno, «e non possiamo dire chi siamo». Ah, ecco. Chiarissimo. E complimenti per lo stile.
Piero Ricca – quello che al premier urlava qualche anno fa, proprio qui, «Buffone fatti processare!» – si è trascinato con la sua Qui Milano Libera. Schizza indignazione sulla scalinata del tribunale. I fan di Silvio si tengono più urbanamente prudenti, sulla via di fronte al Palazzaccio, in un gazebo con la scritta: “La politica nei seggi elettorali, non nei tribunali”. Una troupe francese s’aggira smarrita in cerca di una notizia con cui riempire il servizio: «Ma non c’è Belen? George Clooney?», chiede speranzosa. «Non c’è nessuno», gli risponde un fotografo. I quattro lati del Tribunale sono presidiati da telecamere e flash piantati su cavalletti che attendono inutilmente, come nella celebre pièce. Un avvocato esce e avverte: «Guardate che non c’è nessuno». Macché, quelli rimangono imbullonati a presidiare le uscite. Molti anche gli studenti e qualche sostenitore pro-Cav che urla di lasciarlo stare, Berlusconi, «Che è un imprenditore onesto, lui». Le tv di mezzo globo sonnecchiano. Qualche collegamento, in diretta sul nulla, parte. Un collega della Bbc ci confida che non ha dormito per l”attesa: «Avevo la prima diretta alle sei e trenta», dice. «E per dire che?», gli chiedo. «Niente» – risponde – «Le notizie di ieri». «È Silvio, bellezza!», direbbe qualcuno.