Si è conclusa lunedì con la cattura di Laurent K. Gbagbo la guerra civile che per quattro mesi ha insanguinato la Côte d’Ivoire, provocando almeno 1.500 morti e oltre un milione di profughi che dalla Côte d’Ivoire hanno cercato rifugio in Ghana, Mali e Burkina Faso. A innescare gli scontri furono le elezioni del 31 ottobre 2010 dopo un rinvio lungo 5 anni. I risultati sancirono la sconfitta dell’allora presidente uscente Gbagbo e la vittoria dello sfidante Alassane Dramane Ouattara, a capo del Rassemblement démocratique des républicains (Rdr). Sotto pressione del presidente uscente, il Consiglio costituzionale invalidò tuttavia i risultati di alcune circoscrizioni elettorali del Nord, ribaltando di fatto il risultato elettorale.
La Côte d’Ivoire si trovò così con due presidenti che reclamavano entrambi la vittoria e il diritto a governare, che nel giro di poche settimane passarono dalle parole alle armi. Nelle ultime settimane si sono rivelati decisivi il sostegno politico e militare che Nazioni Unite, Unione africana e soprattutto la Francia, ex potenza coloniale, hanno fornito a Ouattare. Le forze fedeli a Gbagbo hanno infatti progressivamente perso la capitale amministrativa Yamoussoukro, l’importante porto di San Pedro e il 6 aprile scorso anche il controllo della capitale economica, Abidjan.
La lunga stagione di colpi di Stato iniziò in Côte d’Ivoire con la morte nel 1993 di Félix Houphouët-Boigny quando il paese aveva abbandonato il sistema a partito unico per il multipartitismo: la transizione alla democrazia rimane tuttavia un processo incompleto, contrastante e conflittuale. L’ultima guerra africana ha distrutto quello che solo qualche anno fa era considerato un modello di stabilità per l’intero continente. Anche se la Costa d’Avorio figura tra i venti paesi più poveri al mondo nella classifica stilata dalla Banca mondiale nel 2010 e si colloca al 137 posto su 160 nell’indice di qualità della vita stilato dall’Economist con un punteggio di 4,7 su 10 nel 2009 (era 4,84 nel 1989).
A complicare il conflitto politico è stata la componente identitaria collegata al concetto di ivoirité che fu promosso durante gli anni Novanta dall’allora presidente Henri Konan Bédié e poi da Gbagbo. L’ivoirité ha la pretesa di definire la nazionalità ivoriana sulla base di una serie di nozioni culturali nell’intento di demarcarne i confini identitari. In un paese che per decenni ha attirato importanti flussi migratori da tutta l’Africa occidentale il risultato è stato quello di escludere dalla vita politica tutti i residenti ivoriani provenienti da altri paesi, negando loro il diritto di voto. In un periodo di crescente crisi economica l’ivoirité ha alimentato la conflittualità sociale ed è servita a proteggere i privilegi economici dei ricchi contro le richieste perequative degli strati più poveri della società e spesso dei lavoratori immigrati. L’ivoirité, strumentalizzata a fini di potere dall’élite cristiana del Sud, ha inoltre veicolato un sentimento implicitamente anti-musulmano con l’effetto di mettere in contrapposizione il Sud del paese a maggioranza cristiana con il Nord a maggioranza musulmana.
È stato proprio Ouattara a essere escluso dalle presidenziali del 1995 e del 1999 perché almeno uno dei suoi genitori era originario del Burkina Faso e anche quando ha potuto finalmente parteciparvi e vincerle ha finito per scontare la sua disorganicità al concetto di ivoirité, innescando la guerra civile. Spetta ora a Ouattara uscito vincitore dal conflitto non solo stabilizzare il paese e aiutare la ripresa economica, ma soprattutto favorire una vera transizione in grado di rimarginare le lacerazioni della società verso un nuovo patto nazionale che possa includere (invece di escludere) le diverse componenti della società ivoriana.