È probabile che l’occasione del bicentenario verdiano, nel 2013 sia vissuto e affrontato da molti, prima di tutto dalla Lega Nord, come una replica per uscire dalla retorica, e soprattutto dalla condizione di scacco in cui è stato subito il 150°. Le premesse ci sono già. Intorno a Giuseppe Verdi è già partita una campagna che ha un sapore ideologico e identitario e che si concentrerà, almeno sul piano della comunicazione immediata sulla vecchia questione della qualità del coro del Nabucco contro il Canto degli Italiani meglio noto come Fratelli d’Italia. Un canto più grave, più profondo. Un testo che aveva la sua solennità. Forse persino una solennità nordica, austera, rispetto a un testo percepito come troppo urlato, un po’ goliardico, forse persino provinciale.
Errore profondo, per due motivi. Primo motivo. Gli inni nazionali, un genere che ricordiamolo ha una storia recente che risale alla prima metà dell’Ottocento, hanno in sé la comunicazione di uno spirito bellico, narrano un’azione di assalto, un atto di forza che si compone in base a un deliberato che è collettivo e che comunica violenza. Secondo motivo. Giuseppe Verdi non ha mai considerato quel coro e quel testo come rappresentativi di una volontà e capaci di trasmettere un sogno. Quel sogno in musica lirica, la musica popolare di allora, del resto lo aveva già cantato Bellini. nel coro de I Puritani (1835): “Suoni la tromba e intrepido/ io pugnerò da forte. / Bello è affrontare la morte/ gridando: libertà!”
Certo come in tutte le narrazioni degli schiavi che provano a diventare liberi il testo biblico ha spesso fornito l’ispirazione all’immaginario del dopo. In questo senso non c’ è da stupirsi. Ma se la forza del Coro del Nabucco sta qui allora si potrebbe anche ricordare che così come Verdi, anche Mameli utilizzerà la narrazione biblica come piattaforma per immaginare la riscossa (ne «La buona novella», composizione del 1847 troverà posto Sansone; la condizione della schiavitù e l’esodo dall’Egitto, secondo un canone letterario e mentale che il filosofo americano Michael Walzer ha proposto in «Esodo e rivoluzione», un testo che è un classico).
Dunque se il problema è il coro degli oppressi o la dimensione di patria perduta e sottratta da riconquistare, allora si può già affermare che l’ufficio propaganda della Lega sta distribuendo una patacca. Infatti, è il profilo di chi oggi legge Verdi come l’ideologo dell’ “Italia altra” che non regge e non regge perché è falso. Non regge nell’autocoscienza di chi allora c’era nel processo risorgimentale. Si può dire che Cavallotti nel 1896 quando saluta in Verdi il terzo Giuseppe (gli altri ovviamente sono Mazzini e Garibaldi) che ha fatto l’Italia unita prenda un abbaglio? E se restiamo all’anelito della voce dall’esilio del Nabucco, la stessa voce non suona già nel coro dell’«Italiana in Algeri» di Gioacchino Rossini nel 1813?
Ma non regge nemmeno a uno sguardo disincantato di ora. Abbandoniamo i dati di natura filologica (anche se sapere di che cosa si sta parlando non è disdicevole) e consideriamo quelli di contesto. L’immagine di Verdi cantore risorgimentale si gioca lungo gli anni ’40 tra il «Nabucco» (1842) e «La battaglia di Legnano» (1849). Un testo quest’ultimo in cui Verdi simbolicamente gioca tutto se stesso. Per la scelta del luogo in cui viene rappresentata la prima e per le parole. Il luogo: Roma 27 gennaio 1849 nel pieno del passaggio verso la Repubblica, in una città del Papa senza più il Papa, una città su cui iniziano a convergere tutti i rivoluzionari d’Europa.
Le parole. «Viva l’Italia! Un sacro patto/tutti stringe i figli suoi/esso alfin di tanti ha fatto/un sol popolo di eroi/viva l’Italia forte ed una/ colla spada e col pensier!/ Questo suol che a noi fu cuna/ tomba sia dello stranier!» È il coro introduttivo a cui il tenore risponde «Chi muore per la patria/alma sì rea non ha». Si potrebbe dire che sono versi ambiguo? Ma non è solo nell’opera che Verdi esprime il suo pensiero. Il 21 aprile 1848, appena rientrato da Parigi a Milano, spinto dagli avvenimenti che infiammano l’Italia scrive a Francesco Maria Piave, uno dei suoi librettisti che ha scritto l’Ernani e ancora lavorerà con Verdi, tra l’altro, a «La traviata» e a «La forza del destino», scrive: «Onore a tutta l’Italia che è veramente grande! L’ora è suonata, siine persuaso, della sua liberazione. È il popolo che la vuole: e quando il popolo vuole non avvi potere assoluto che le possa resistere. Potranno fare, potranno brigare finché vorranno quelli che vogliono essere a viva forza necessari ma non riesciranno a defraudare i diritti del popolo. Si sì, ancora pochi anni forse pochi mesi e l’Italia sarà libera, una repubblicana. Cosa dovrebbe essere?»
La sconfitta del 1849, ripiega invece Verdi, e la delusione – al conrario di Cattaneo – significa abbandono dell’idea repubblicana e avvicinamento alla dimensione sabauda. Quando dieci anni dopo (il 4 settembre 1859) Giuseppe Verdi viene eletto dai concittadini di Busseto come loro rappresentante all’Assemblea delle provincie parmensi, ottiene il consenso sulla base dell’impegno per l’annessione al Piemonte perché in quell’atto scrive al Podestà di Busseto, il giorno dopo la sua elezione, vede «la futura grandezza e rigenerazione della patria comune».
Con questo spirito il 14 marzo 1861 vota a Torino a favore del titolo di Re d’Italia a Vittorio Emanuele II. Non solo. Agli amici che fremevano impazienti per le insofferenze nel Mezzogiorno, così scrive a Cesare de Sanctis pochi giorni dopo, il 19 marzo: «Per Dio, non fate ragazzate; state quieti, tenete a freno i matti, abbiate pazienza, fidale del gran politico [Cavour] che regge i nostri destini e tutto andrà bene. Pensate che se non si dovesse effettuare la grande idea dell’Unità d’Italia, la colpa sarebbe tutta vostra, che delle altre parti d’Italia non v’è da dubitare. Se per idee miserabili di campanile l’Italia dovesse essere divisa in due (che Dio non o voglia) sarebbe sempre in balia e sotto protezione delle altre grandi Potenze, quindi povera, debole, senza libertà, semi-barbara. L’Unità soltanto può renderla grande, potente e rispettata». Dove sta l’ambiguità? E soprattutto, l’idea del federalismo in queste parole e in quelle decisioni?