A Srebrenica non avevamo la scusa di non conoscere Auschwitz

A Srebrenica non avevamo la scusa di non conoscere Auschwitz

Buenos Aires, maggio 1960. Quindici anni dopo. Rudolf Klement, alias Adolf Eichmann, è catturato da un gruppo di uomini dei servizi segreti israeliani. Quindici anni dopo: inizia ad aprirsi, in qualche forma, una possibilità di sguardo analitico su ciò che poi è stato definito come “Auschwitz”. Non solo un luogo, ma un concetto dietro cui stanno molti altri luoghi e concetti. Un concetto con cui, da quel processo, abbiamo dovuto prendere in qualche modo la misura. Non so se la cattura di Ratko Mladic, sedici anni dopo, aprirà lo stesso percorso e consentirà all’Europa di guardare dentro se stessa.

È stato detto in queste ore (penso soprattutto a quanto scrive Adriano Sofri su la Repubblica di oggi, in un articolo di grande spessore letterario e culturale) che noi, nelle scene di Srebrenica, abbiamo finalmente capito cosa sia accaduto ad Auschwitz in termini di dinamiche della selezione, di modi di esecuzione, e soprattutto nel passaggio brusco tra apparente cortesia e brutalità: tutte cose che sempre caratterizzano i carnefici nella gestione dei civili che stanno per essere sterminati. Lo stesso accadde a Srebrenica, circa 16 anni fa nel luglio 1995.

Dubito che ciò sia quanto abbiamo imparato e, personalmente, dubito che questa sia stata la vera lezione di Srebrenica. A Srebrenica non abbiamo scoperto quello che era accaduto ad Auschwitz, né abbiamo compreso come quell’evento fosse stato possibile, né infine, abbiamo ritrovato la banalità del male. Per riprendere l’espressione introdotta da Hannah Arendt e diventata tanto famosa, quanto talora indefinita.

A Srebrenica, invece, abbiamo scoperto un’altra cosa e non ricordarlo, credo, costituisce ancora un problema politico e morale enorme. Tanto enorme che non riusciamo ancora a riconoscerlo pubblicamente. Ma cosa? A Srebrenica abbiamo sperimentato e provato che sapere che sta accadendo qualcosa, vederlo persino, non impedisce che quella cosa non solo sia possibile, ma che avvenga. E soprattutto abbiamo scoperto che, dopo, noi, non i carnefici, siamo ancora in grado di vivere senza sentire la vergogna.

A Srebrenica, in breve, abbiamo scoperto (ma non siamo disposti ancora a riconoscerlo) che non è vero che lo sterminio avviene perché nessuno lo sa. E che non è vero che se avessimo saputo, non sarebbe potuto avvenire. Ma che lo sterminio avviene, lo vediamo in diretta e complessivamente continuiamo a pensare che sono “fatti loro”. Comunque che non ci riguarda.

Ripercorriamo velocemente ciò che accade a Srebrenica nel luglio di sedici anni fa. È l’estate del 1995: la guerra che nei Balcani dura da quattro anni sta per concludersi. Bisogna raggiungere sul terreno i patti che i “signori della guerra” (il serbo Milosevic, il bosniaco Izetbegovic e il croato Tudjiman) hanno sottoscritto con il tacito assenso della comunità internazionale: il 51% del territorio della Bosnia ai croato-musulmani ed il restante ai serbo-bosniaci.

Ma la realtà non è una torta che si può tagliare e dividersi le fette. In mezzo a quel territorio ci sono le “zone protette”, enclaves musulmane in un territorio completamente in mano ai serbo bosniaci e sotto protezione Onu. Per raggiungere l’obiettivo occorre eliminarle. Non si tratta di invitare gentilmente i musulmani di spostarsi. Si tratta di mandarli via con la forza. A lungo si trascina un “tira e molla”. Il 30 maggio del 1995 l’Onu pubblica un documento dove si dichiara che i Caschi blu possono lasciare le “zone protette”. È il segnale che l’operazione si può fare.

È questo il compito degli uomini dell’esercito serbo-bosniaco che, l’11 luglio, entrano a Srebrenica comandati del Generale Mladic. Dopo che, dal 9 luglio la città era stata piegata dai bombardamenti. Questo il compito: la pulizia etnica. Sul terreno, anzi sottoterra, in luoghi sparsi, restano 8000 uomini. Gli altri (donne vecchi e bambini), scappano – se ce la fanno – altrimenti subiscono violenze e stupri.

Pensavamo, noi in Europa, di esserci lasciati quelle scene alle spalle. Che fossero del passato e, soprattutto, ai confini dell’Europa. A Katyn, ad esempio: nei territori nebbiosi e freddi della Polonia e dell’Ucraina e lungo i bordi delle molte fosse in cui sono stati sterminati ebrei, russi, polacchi, spesso con la complicità delle popolazioni locali che in quelle scene riversavano odio, invidie, gelosie. Ci sbagliavamo.

Con altri nomi, quelle storie e quelle vicende sono tornate, in quell’estate 1995. È tornata la scena della caccia all’uomo, “mirata” in base alla sua nascita e alla sua fede. È tornata la scena dello sterminio, consumato e realizzato come macchina primitiva in cui si deridono le vittime e si consuma molto alcool per sopportare l’odore del sangue, il puzzo dei corpi che si decompongono, i suoni del pianto, delle urla, delle imprecazioni. Intorno, intanto si violentano le donne, si deridono i vecchi, si abusa dei minori. Sono scene che, in questi sedici anni, abbiamo cercato di rimuovere o di tacitare. Bisognerebbe tentare di capire perché.

Si poterebbe osservare come, ogni volta, nella geografia delle stragi (un mezzo, anche questo, che permette di scrivere la storia d’Europa, e sarebbe istruttivo possederne un atlante storico), la figura principale sia il “nemico del popolo”. Non è una figura che si costruisce velocemente. È piuttosto il risultato di un lungo esercizio retorico, con il quale, lentamente, le persone concrete non hanno più una fisionomia individuale. Ovvero, cessano di esistere come persone: cioè vengono private della loro storia reale e sono trasformate in simboli. Per questo motivo possono essere cacciate, tolte di mezzo. È una spiegazione, ma non l’unica. Occorre, a sostegno, qualcosa di più concreto. 

È sempre difficile elaborare il senso di colpa o, meglio, partire da una condizione di contrizione e costruirvi intorno una consapevolezza politica e culturale. Senso di colpa e senso di responsabilità non possono stare insieme. Confliggono e, di solito, è il primo a prevalere. Questo fa sì che non ci si misuri con i contenuti, le domande e la necessità di fornire risposte incluse nel secondo. Così è ancora oggi per noi.

Nel luglio del 1995 non si è solo ripetuta una scena di codardia già avvenuta a Monaco, nel settembre 1938, quando le potenze democratiche europee lasciarono sola la Cecoslovacchia. Oppure la scena di imbarazzato mutismo di fronte all’appello di soccorso che Radio Budapest ci lanciava nella mattina dei primi novembre del 1956. Lì, a Srebrenica, in quei giorni, è anche morto un pezzo di Europa.

L’Europa intesa come progetto di società aperta è morta sulle colline della Bosnia Erzegovina, quando ha deciso, con i fatti, che una parte dei suoi popoli non era degna di difesa. Che i musulmani di Bosnia, abitanti in Europa da molti secoli, non erano suoi cittadini e che la loro vita non era un pezzo della sua storia.

Forse lì è accaduto anche qualcosa di più, che ancora non sappiamo, ma su cui è lecito farsi domande. Ovvero se, anche per quella scena, non sia passato un lento distacco tra mondi, in cui qualcuno non sia più “degno di vivere”. Non è una domanda oziosa perché, appunto, le guerre si costruiscono su simboli, su retoriche dove i civili sono le prime vittime e dove la guerra ai civili non è “una regressione” o un “ritorno al passato” , ma è la forma più attuale di fare le guerre.

*Storico
 

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