DUBAI CITY – A Dubai circola una leggenda: le Twin Towers, torri gemelle nel cuore della città finanziaria, sono state costruite dalla Bin Laden Construction, di proprietà della famiglia di Osama e tra le più grandi ditte di costruzioni al mondo. Anche se si tratta solamente di una diceria, apre uno scorcio molto realistico sul contraddittorio rapporto tra frange islamiche estremiste e quest’altra parte del mondo arabo.
Argomento tabù, quello del terrorismo. Non solo in Arabia Saudita, patria dell’enorme e potentissima famiglia Bin Laden, ma anche negli Emirati Arabi Uniti e in particolare a Dubai. E una delle prime cose che si fa, quando si arriva qui, è chiedersi come mai un Paese totalmente occidentalizzato e schierato con Inghilterra e Stati Uniti – solo per citare l’esempio più recente, gli Emirati hanno fornito alla Nato aerei militari e poliziotti per combattere Gheddafi – sia finora stato immune da attentati. Anzi, è ritenuto uno dei Paesi più sicuri al mondo.
Nonostante non lo si possa dire apertamente (nemmeno in Occidente), Dubai è un porto franco. Non solo per le merci che transitano da ogni luogo, ma anche per i capitali. Qualcuno la definisce una gigantesca money laundry: una lavanderia di soldi sporchi provenienti da mafie internazionali. E sfruttata anche dai terroristi: il gruppo di monitoraggio delle Nazioni Unite su Al Qaeda ha sottolineato come le “cellule” di Bin Laden tengano i loro capitali proprio nelle banche di Dubai. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, emerse che parte dei soldi per gli attacchi erano transitati dagli Emirati e, nonostante il tanto proclamato impegno dello sceicco Al Nahayan nel combattere terrorismo e traffici illeciti, è dello scorso dicembre la notizia dell’arresto, a Nuova Delhi, di Naresh Kumar Jain, miliardario indiano a capo di un enorme giro di riciclaggio: a Dubai ripuliva e reinvestiva soldi provenienti dal narcotraffico mondiale, anche per finanziare operazioni terroristiche. C’è un tacito accordo, quindi. In cambio della sicurezza, gli Emirati non guardano in faccia chi apre conti in banca, non controllano da dove provengano i soldi e chiudono gli occhi su sospetti traffici di merci (e armi) nell’immensa free zone della città.
Ne è un’ulteriore conferma il fatto che il tessuto sociale degli Emirati sarebbe terreno fertilissimo per i terroristi: qui si trovano migliaia di migranti, in maggioranza musulmani, sfruttati e poverissimi. Non ci sarebbe nulla di più semplice, per un qualsiasi gruppo estremista, che reclutare uomini disposti a tutto in cambio di un po’ di soldi per le proprie famiglie. Per questo motivo il Governo controlla in maniera minuziosa ogni imam. Tutti, anche quelli delle moschee minori che hanno sede nei labour camp, ai margini della città, dove vivono gli operai edili.
Si aggiunga che gli Emirati hanno un’enorme rilevanza anche dal punto di vista geopolitico, perché formano una sorta di cuscinetto alla “minaccia” Iran (nemico numero uno dell’Arabia Saudita in primis). È quindi interesse della maggior parte dei Paesi, Medio Orientali e Occidentali, lasciare le cose così come stanno.
Quanto ai fatti – questa volta documentati e non leggende – Osama Bin Laden è stato più volte curato per i suoi problemi renali in un ospedale di Dubai, mentre la Bin Laden Construction ha partecipato all’appalto per il Burj Khalifa. Se non si è aggiudicata il grattacielo più alto del mondo, ha però firmato la costruzione di altre torri minori nello stesso quartiere.
I media locali hanno accolto la notizia della morte di Osama in maniera molto anglosassone: misurata e ben documentata. Si soffermano soprattutto sul problema del trattamento della salma: secondo il rito islamico, dovrebbe essere cremata entro 24 ore, mentre risulta contrario alla religione gettare le ceneri in mare (cosa che gli americani probabilmente hanno già fatto). E, se sulle pagine dei giornali internazionali si tira un sospiro di sollievo leggendo dell’immediata caduta del prezzo del petrolio, qui si fanno i calcoli di quanti soldi si stiano già perdendo con la morte di Bin Laden.