Guantanamo, il più grande fallimento di Obama

Guantanamo, il più grande fallimento di Obama

La prigione di Guantanamo rappresenta il più grave fallimento dei primi tre anni di presidenza Obama, segno di un cinismo politico e un opportunismo inaspettati, che potrebbero costare caro al presidente nelle elezioni del novembre 2012. Non perché il problema di Guantanamo possa di per sé spostare la lancetta dei sondaggi, ma perché la delusione per il suo comportamento incide sull’entusiasmo di centinaia di migliaia di giovani che furono la sua più arma più efficace nel 2008.

Sono stato due volte nella prigione americana nell’isola di Cuba. La prima nel 2003, quando il carcere sembrava un allevamento per polli: minuscole gabbie di lamiera traforata sotto un capannone aperto su tutti i lati, che allora contenevano oltre 600 prigionieri vestiti di arancione (poi sarebbero diventati quasi 800) mostrati ai giornalisti come trofei di caccia. La seconda volta nel 2008, per visitare le quattro carceri di massima sicurezza costruite nel frattempo, e assistere al processo di Salim Hamdan, ex autista di Bin Laden. Erano gli anni di George Bush, e persino i militari che mi scortavano in giro per la base erano consapevoli che si trattava di una tragica farsa.

Ma i documenti pubblicati dal New York Times e da altri sette giornali (grazie a WikiLeaks) dimostrano che è stato molto peggio di quanto si potesse immaginare. A Guantanamo non sono state praticate solo torture fisiche sui detenuti. Centinaia di loro sono stati tenuti prigionieri senza alcuna ragionevole motivazione. Un quattordicenne è rimasto anni in cella perché poteva essere utile per rintracciare il talebano che lo aveva rapito: visitai la sua stanzetta, vidi i suoi disegni, mi fu magnificata l’umanità dei suoi insegnanti. Un tassista è stato segregato perché «conosceva a menadito la regione di Kabul e altre zone frequentate dai talebani», e si pensava potesse segnalare qualcosa di interessante. Un cittadino uzbeko perché si sperava avrebbe fornito informazioni sui servizi segreti del suo paese; un uomo di 89 anni, affetto da demenza senile, nella speranza che potesse fornire notizie su suo figlio.

E ancora: un giornalista dell’emittente Al Jazeera, detenuto per sei anni, era ufficialmente sospettato di avere avuto contatti con gruppi estremisti ma è stato interrogato solo su quanto avveniva all’interno delle redazioni di Al Jazeera. L’elenco potrebbe continuare a lungo. L’operazione Guantanamo è stata una gigantesca messa in scena ideologica organizzata in violazione del principio dell’habeas corpus, applicando inammissibili torture sui prigionieri e negando loro i più elementari diritti. L’amministrazione Bush voleva dimostrare agli americani che stavano vivendo in un periodo di guerra permanente e al resto del mondo che gli Stati Uniti sono un paese speciale a cui non si addicono le regole valide per altri.

Negli ultimi anni oltre seicento prigionieri sono stati liberati alla chetichella, rinviati nei rispettivi paesi senza troppa pubblicità. A Guantanamo sono rimasti in 172. La maggior parte di loro non verrà mai processata per mancanza di prove. Solo qualche decina avrà questo privilegio.

Nel corso della campagna elettorale del 2008 Obama aveva promesso di chiudere il carcere illegale, di trasportare i detenuti ritenuti responsabili di qualche reato in territorio americano, di processarli presso normali corti di giustizia e di rimandare al loro paese quelli non processabili. Non ha mantenuto alcuna di queste promesse. Si è persino rifiutato di rendere noti i documenti che ora sono diventati pubblici grazie a WikiLeaks. Alla fine solo alcune decine di prigionieri avranno un processo. La maggioranza dei 172 resterà lì, in quell’infernale paradiso tropicale che è il Guantanamo Bay Detention Camp, presso la base navale battezzata Gitmo.

Le ragioni della passività di Obama non vanno cercate nel territorio dell’etica politica, ma in quelle dell’opportunismo. La crisi economica ha spostato l’attenzione dell’opinione pubblica americana dai problemi del terrorismo e della legalità a quelli della disoccupazione. Guantanamo è diventata rapidamente marginale. Occupandosi della prigione cubana Obama avrebbe corso dei rischi. La destra repubblicana avrebbe tuonato che il presidente perdeva il suo tempo per salvare i terroristi stranieri piuttosto che occuparsi dei disoccupati americani. Obama ha scelto di non correre questo rischio.

Lo ammettono anche gli uomini del suo staff: interrogati dai giornalisti rispondono che Obama non è riuscito a «fare arrivare il messaggio di Guantanamo agli americani». Aggiungono anche che nei tre anni passati il presidente non ha avuto tempo di occuparsi di Guantanamo, ossessionato dalla riforma sanitaria, dalla crisi finanziaria, dal debito pubblico. Esattamente quello che si vuole sentir dire la classe media.

È probabile che alla fine questa scelta del presidente risulterà vincente. Obama ha il naso fine nell’annusare gli umori dell’opinione pubblica. È possibile che deciderà di occuparsi di Guantanamo nel corso del suo probabile secondo mandato. A quel punto non avrà più l’incubo della rielezione e potrà togliersi qualche soddisfazione e mantenere alcune delle promesse mancate nei primi quattro anni. Ma questo non lo assolve per non avere mantenuto la sua promessa elettorale. E di non avere cancellato una delle peggiori macchie sulla fedina della democrazia americana.

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