Horace Freeland Judson
(21 Aprile 1931 – 6 Maggio 2011)
Americano di New York, scrittore (e giornalista) prevalentemente di scienza, di scienziati, e di metodo scientifico. Fra chi fa il suo stesso mestiere, oggi, gira un’espressione affettuosa: «In science writing, we are all Judsonians now». Per chi ama il linguaggio dei simboli, il numero otto è scivolato nella vita del signor Judson chiudendola a 80 anni, e sottolineandola col titolo del suo libro più celebre: The Eight Day of Creation, l’ottavo giorno della Creazione (1979).
Il titolo, creato molto bene, darebbe un’idea immediata di un processo demiurgico, divino, ma gli attori del racconto, in quelle 600 pagine, sono invece uomini – scienziati, in particolare – che parlano di come siamo fatti, alla base, e di come siamo arrivati, a colpi di intuizioni, di prove, e di tappe conseguenti, a scoprirlo. È una storia della nascita della biologia molecolare, delle sorprese stanate dalla ricerca (il Dna e la sua struttura a doppia elica), della comprensione del linguaggio del gene, o dei geni. In dieci anni di lavoro, e un centinaio d’ore di interviste (giornalismo ai livelli più alti, una parte di quel Eight Day veniva pubblicata sul New Yorker nel 1978), Horace Judson metteva anche insieme un quadro di caratteri: per quello che sono, per come quegli scienziati discutono fra loro, affermano, o si contrappongono rimandandosi, a volte, le loro bassezze. E qualche manovra d’ambizione, o di tentato, o riuscito, potere. Lo sfondo resta la battaglia, a volte drammatica, per la conoscenza.
I tratti riconosciuti all’autore, a Judson, erano questi: massima civiltà nel parlare e nel comportarsi, humour costante, a volte acido, intelligenza originale, di primo acchito. Se si aggiunge un ateismo integrale (e anche il fatto di muovere male il braccio destro per una poliomelite contratta a 13 anni), si capisce la centralità del «fattore umano» nelle variazioni e negli aggiornamenti della sua vita. I suoi personali caratteri portati alle arti, alle scienze, e anche alla controcultura, non mancavano di una base molto particolare ed ereditata: i suoi genitori – uno economista, e l’altra insegnante – avevano anche fatto parte di una compagnia itinerante di burattinai. E il padre aveva poi lavorato nell’amministrazione alleata a Berlino nel secondo dopoguerra.
Lui, Horace, gran lettore, aveva scritto un primo libro dal titolo The Techniques of Reading, nel 1954, e, come giornalista, per la rivista Time – corrispondente da Londra – avrebbe intervistato, fra gli altri, Samuel Beckett, John Lennon e Bob Dylan.
Si sarebbe specializzato in divulgazione scientifica (e prima del big-bang editoriale di The Eight Day of Creation) soprattutto attraverso due libri: sulla dipendenza dall’eroina in Gran Bretagna e su quello che gli americani potevano imparare dall’esperienza inglese, e sulla frode nella scienza, cioè sulla manipolazione deliberata dei dati scientifici. Era partito dai piaceri della lettura, si era imbattuto, col massimo mestiere e piacere, in umanisti aggiornati e molto creatori (Beckett e gli altri), era diventato uno storico della scienza con un’attitudine sociale e narrativa.
Sarebbe stato anche chiamato a insegnare alla Johns Hopkins e alla George Washington University. Ma questi ultimi due erano i passaggi meno a sorpresa.
Quello che continuava a sorprenderlo era la quantità di cose inattese che la vita, e la morte, riservano. Lo diceva, chiacchierando, alla fine di una cena. E aggiungeva: «Quando si muore, ho l’impressione che la macchina semplicemente si fermi».
Randall Mario Poffo
detto «Randy “Macho Man” Savage»
(15 Novembre 1952 – 20 Maggio 2011)
Nawang Gombu
(1936 – 2011)
Il primo, americano, di Columbus, Ohio, lottatore campione di wrestling. Morto, per un infarto, mentre guidava la sua macchina a Tampa, Florida.
Il secondo, tibetano, di Kharta, sherpa. È arrivato due volte sulla cima dell’Everest.
Due campioni fisici opposti, con due spettacoli delle loro imprese che potrebbero affiancarsi solo immaginando una surreale competizione (o un ballottaggio) fra due caratteristiche di questo tipo: la forza della massa, dei muscoli, da giostrare entro il perimetro di un ring, la forza della concentrazione, e dell’esperienza, da impiegare a piccoli passi in alto e all’aria dei ghiacciai. La vittoria contro avversari, contro altri uomini-montagna (di muscoli), o la conquista di una cima. Due esiti finali, con eventuale raggiungimento di un primato.
Randy «Macho Man» Savage portava occhiali da sole a tutta faccia, una bandana spesso zebrata, una canottiera a pelle di leopardo, e spesso un cappello da western. Un viso largo (non antipatico), una barba scolpita, un braccialetto di pelle a borchie: un eccesso estetico evidente, voluto, anzi da inizio di una moda decisiva per i lottatori di wrestling successivi. Il wrestling è spettacolo. La sua federazione sportiva aveva un acronimo che ricorda altro (Wwf), e il suo bagaglio di titoli è a dir poco degno di nota: sei volte campione del mondo, venti titoli vinti, considerato «il più grande campione intercontinentale» della storia. Un lottatore in trionfo, poi in caduta, e poi in ripresa. Fra gli anni Ottanta e il 1995. Il primo titolo, nel 1988, con uno «schienamento finale e definitivo». Dopo il ritiro sarebbe stato anche un attore di cinema, conosciuto in particolare per l’interpretazione di Spider Man.
Nawang Gombu era normalmente esile e nelle sue foto più diffuse porta una giacca a vento vieux style e gli occhiali scuri da montagna non larghi e piazzati aderenti, un bel po’ sopra la fronte, sul cappello di lana. Nel 1963 conquistava per la prima volta la cima dell’Everest nel gruppo dello scalatore americano Jim Whittaker. Due anni dopo, nel 1965, arrivava sulla stessa vetta con una spedizione indiana. A 17 anni, nel 1953, faceva parte del team dello neozelandese Edmund Hillary, il primo ad arrivare sul tetto del mondo. Il capo sherpa di Hillary era il celebre Tenzing Norgay, zio di Nawang. Per questa partecipazione il giovanissimo nipote-sherpa, aveva ricevuto la Coronation Medal della regina inglese Elisabetta II. Per la scalata con Whittaker veniva ricevuto nel rose garden della Casa Bianca per farsi festeggiare da John Kennedy con la National Geographic Society’s Hubbard Medal. Una volta ritirato, ha dedicato la maggior parte del suo tempo alla Sherpa Buddhist Association, un’organizzazione che sostiene le famiglie degli sherpa morti in montagna, o rimasti invalidi.
Questi, in brevissimo, i colpi d’occhio e le imprese, dei due surreali contendenti. Se le si considera due programmi retroattivi, un ballottaggio, altrettanto surreale, è possibile.
Il quadro di questa settimana: «Lake», del pittore statunitense Kris Lewis, olio su tavola, 2010.