Albert Bachmann
(1929 – 2011)
Chiamato Bert. Cittadino svizzero di Albisrieden, oggi quartiere di Zurigo, la città dove suo padre faceva l’imbianchino. È morto a Cork, in Irlanda, dopo una malattia fulminante: lì viveva da un trentennio, e in molti pensavano che fosse un banchiere a riposo. La notizia della sua morte, in aprile, e quello che ha fatto nella vita, sono stati pubblicizzati solo successivamente. Gli è capitato di usare altri nomi – come Henry Peel, cittadino inglese – ma in Germania, negli anni Settanta, era conosciuto anche come Mano Nera. Per poco tempo, dal 1976 al 1979, è stato il capo dei servizi segreti elvetici con il grado di colonnello.
La sorte e un carattere romanzesco, o almeno inquieto, lo hanno disegnato in queste tappe. Da ragazzo e da giovanotto era comunista (nella Freie Jugend, interna al Partito svizzero del Lavoro), da militare di leva, si scopriva un cittadino appassionato di eserciti e strategie, da uomo stabilmente formato in un mestiere si ritrovava, apprezzato, nei ranghi alti dell’intelligence della Confederazione. Come ufficiale dello Stato Maggiore, sarebbe stato l’unico ad avere dei tratti decisamente distintivi: educatissimo, un’espressione un po’ fishy (da pesce) come un Michael Caine con i baffi e deprivato di sensualità, un tatuaggio stampato su un avambraccio [▣ FOTO]. Da militare europeo e occidentale (ancorché neutrale) nel periodo in cui la guerra fredda era nel suo pieno, non gli restava che offrire il massimo ingegno personale contro il nemico dell’Est.
I carri armati sovietici a Praga lo avevano sconvolto, e allora, in un anno – 1969 – organizzava una rete di propaganda, coscientemente allarmistica, il cui libretto rosso, da far circolare nell’intera Svizzera, era un opuscolo ben messo insieme e titolato Civil Defense. Era proprio scarlatto-fuoco di copertina come il manuale del presidente Mao, e conteneva, fra l’altro, una lista di persone di sinistra, o intellettuali, venduti con la classica targa di «nemici interni». Un breviario di resistenza diffusa, in caso di invasione. Oltre due milioni di copie stampate, e distribuite sul territorio del Paese più neutrale e meglio preparato alla propria difesa (fra gli eserciti del mondo che hanno preso a modello l’organizzazione militare svizzera, quello israeliano è stato il più attento, anche se non molti lo sanno).
Non solo. Essendo Albert un avventuroso, decideva di costruirsi una propria missione speciale, e privata, in Africa, dove poter saggiare anche il piacere del travestimento. Nei tre anni di guerra civile, e atroce (1967-1970), che hanno opposto il governo federale della Nigeria alla provincia sudorientale e secessionista del Biafra [▦ VIDEO], si vedeva, soprattutto nell’ultimo periodo, girare e prendere contatti, un signore inglese con modi upper class e di nome Henry Peel (buon cognome, lo stesso di un passato premier britannico del primo decennio della regina Vittoria). Era Albert, probabilmente filobiafrano, anche se lì qualcosa, nello schema fisso della guerra fredda, non tornava: le ragioni nigeriane erano infatti sostenute insieme dall’Inghilterra e dai sovietici, mentre il Biafra aveva dalla sua parte i francesi, il Portogallo di Salazar, e Israele.
Ma il capolavoro visionario (o da giocatore di Risiko) di Albert Bachmann doveva coincidere con la sua nomina alla testa dei “servizi” di Berna. Nel 1976 veniva perfezionato e dettagliato, in codice, il suo Progetto 26, una nordica e verde dislocazione di uomini in armi e ministri di fronte a un eventuale sfondamento a ovest di armate slavofone e comuniste. Albert aveva messo in piedi un battaglione di duemila combattenti, svizzeri, specializzati nella guerriglia: da utilizzare sul posto, cioè nel suo Paese, una volta invaso dai sovietici, ma da addestrare anche in un’altra parte d’Europa, molto amata, e cioè la Repubblica d’Irlanda (nell’Ulster con le sue sei contee, la guerra e la guerriglia, anglo-irlandesi, erano reali e sembravano infinite). Intorno alla verdissima e portuale Cork, il capo dell’intelligence svizzera aveva fatto comprare una distesa di 200 acri con due case georgiane: quella sarebbe stata la postazione dove piazzare il governo in esilio della Confederazione, il quartier generale della resistenza, e le riserve auree. Presumibilmente cospicue.
Il Progetto 26, e i suoi investimenti, saranno smantellati abbastanza tardi, nel 1990, e non solo perché era caduto il Muro. Nei tardi anni Settanta, fra i “servizi” vari si stava molto in guardia (dopo tutto, Brežnev senescente sfondava in Afghanistan), e quella guardia eccitava visioni fantastiche di autodifesa, oltre che trame vere, o strategie della tensione (come in Italia). Il colonnello Bachmann, con la sua pipa, i suoi occhiali da Ipcress [▦ TRAILER], le sue occhiate fra le righe, poteva essere considerato, in quel clima, un attore che prendeva sul serio la sua parte di spia e di difensore della civiltà. Oltre a tutto con un personale, e utilizzabile, tocco di valori assoluti: «Un visionario senza paure, un glorioso boy-scout che vedeva il diavolo dappertutto, convinto di avere, lui solo, l’esatta percezione, o verità, sulla difesa nazionale» (è uno dei ricordi, anonimi, e pubblicati post-mortem). Anche un ex comunista di quei tempi, se si vuole. Classico.
Che sbandava definitivamente, nel 1979, con una minimissione affidata a un miniagente nel Paese europeo più sbagliato dove andare a fare intelligence. A quel tempo, l’Austria del cancelliere socialdemocratico e internazionalista Bruno Kreisky salvaguardava, a ridosso dell’Est europeo, una sua saggia attitudine al dialogo. Nell’occasione di una manovra militare, di routine, intorno alla cittadina di Sankt Pölten [◎ GEO-LOCALIZZA], nel novembre di quell’anno, il governo di Vienna invitava un gruppo di osservatori (civili e graduati) dei Paesi del Patto di Varsavia. Un atto di cortese vicinato. Da Berna, informato, Albert Bachmann spediva un suo «secondo uomo» di nome Kurt Schilling a prendere note, e possibilmente foto, di quelle tranquille operazioni e dei loro ospiti. Senza grazia, ma con un surplus di binocoli, mappe, e libretti di appunti, il signor Schilling veniva in pochi giorni individuato dalla polizia austriaca, arrestato, e messo sotto processo per spionaggio. L’imputazione era così evidente che Schilling la confermava, senza coprirsi né coprire nessuno, durante il dibattimento: «La mia missione consisteva nel valutare le capacità dell’esercito austriaco di resistere a un’invasione dell’Armata Rossa». A Berna, il governo si imbarazzava, poi si scusava, infine sospendeva il colonnello Bachmann dalla sue funzioni. Non solo. Volendo andare a fondo di tutta l’intelligence messa in piedi in quei pochi anni, il ministro della Difesa Georges-André Chevallaz, scopriva di sapere pochissimo del Progetto 26. Praticamente nulla. E la cosa lo seccava a tal punto da fargli sospettare che il suo autore facesse il doppio gioco. Per Albert Bachmann, la strada, disarmata, verso l’Irlanda era aperta. Il ritiro, a Cork, in un bell’appartamento, data dal 1980.
E l’Irish Indipendent ha ricordato come tutti quelli che lo conoscevano «trovassero Albert molto ironico e con un carattere sorprendente». Salvo essere convinti che fosse «un ex banchiere a riposo».
Michael Ronald Ward
(1929 – 2011)
Fotografo inglese, di Streatham, Sud di Londra. Più precisamente, fotogiornalista e ritrattista. È morto a 82 anni, dopo essere stato lungamente malato. Ha lasciato un archivio di 5.500 immagini (fra stampe e negativi), e ha lavorato prevalentemente per il Sunday Times. Figlio di un attore molto conosciuto nei teatri del West End – Ronnie Ward – e della ballerina e cantante Peggy Willoughby, parlava apertamente della loro assenza come genitori, assorbiti soprattutto da loro stessi e dai loro rispettivi tradimenti.
Cresciuto sostanzialmente per conto suo, aveva coltivato, fino ai trent’anni diverse vocazioni: la musica (con tre anni di studio al Trinity College of Music di Londra), ma soprattutto il cinema. Brevi parti, ogni tanto col nome di suo nonno (Theo Ward, compositore di music-hall), ma anche come Lawrence Ward o Rhett Ward. Se qualcuno si ricorda, decisamente alla lontana, il film Fanciulle di lusso, girato a Roma nel 1952 dal regista Bernard Vorhaus avrà la sorpresa di scoprire diverse cose: la sceneggiatura scritta, in parte, da Ennio Flaiano, la musica di Nino Rota, e un gruppo di giovani e vellutate attrici come l’inglese Susan Stephen, la franco-russa Marina Vlady, e Paola Mori, italiana (che sposerà Orson Welles, e sarà l’interprete di due suoi film). Ward stava in quel gruppo e su quel set, e una di loro, Susan Stephen, diventerà in breve sua moglie. La seconda, in una successione di cinque. La prima, sposata a 19 anni, era un’insegnante di musica.
Anche la sua prima foto, del 1958 (pubblicata sulla rivista Women’s Own) fa il centro su una donna inglese: è Kate, moglie di Stirling Moss, il gran campione di Formula 1 (vincerà 16 gran premi). Lei guarda, e segue, e protegge il marito durante la gara che gli fa vincere il Grand prix di Gran Bretagna. La macchina dello scatto (doppio, di Ward e di Moss) è una Rolleiflex affittata, perché il fotografo è abbastanza povero. Ma anche bello (una faccia virile, spiritosa, e malinconica) e fortunato. Perché, dopo quell’immagine, gli arriverà una fila di committenze, e la presenza in primo piano sulle pagine dell’Evening Standard (servizi sullo show-business) e poi sul Sunday Times. Dal 1965, per trent’anni filati, con ritratti celebri di celebrità (da Gary Cooper a Julie Christie) e reportage di guerra. Dall’invasione turca di Cipro (1974) al conflitto inglese per definizione, nell’Ulster.
E allora, altre due donne, di mezza età, due casalinghe anglo-irlandesi, con la sporta e il vestito a quadretti, diventano il suo capolavoro. Sono le protagoniste della foto, meravigliosa, Conversation Piece [▣ FOTO]: passeggiano, chiacchierando imperturbate per una via di Belfast cosparsa di pietre divelte, mentre sul fianco sinistro un gruppo di poliziotti accucciati e in tenuta d’attacco si prepara a un’azione d’ordine. È un’istantanea del 1977, durante una visita di Elisabetta II nella devastante capitale dell’Irlanda britannica. Ed è un’immagine compiuta in tutto. Che sorprende, con un massimo d’ironia compassionevole, accontentando ogni tipo di perfezionismo tecnico. Eppure lui, Ward, pensava sinceramente di non essere mai sicuro del confine che distingue una «good picture from an indifferent one».
L’ultima donna, del tutto inglese, che ha ritratto, solo parlandone, da vecchio, è stata sua madre. Con un certo coraggio, ha raccontato del love affair avuto con lei da adolescente. Aggiungendo come lei fosse una «sexually voracious woman», e come lui non sapesse minimamente come ritrarsi. Aveva 16 anni, era successo lungo diverse settimane, in un appartamento di Soho nel 1945. Il contrario di un’unica istantanea. O la variazione di una stessa immagine. Tanto traumatica, quanto irresistibile.
Maria Elisabetta de Orléans e Bragança
(9 Settembre 1914 – 13 Maggio 2011)
Ex imperatrice del Brasile. Di nome, perché la monarchia, a Rio, è stata abolita, con un colpo di Stato non sanguinoso il 15 novembre 1889. Una persona, e una vita, di grandi numeri: è morta, sempre a Rio, a quasi 97 anni, e le sopravvivono 12 figli.
Era nata tedesca del Sud, a Monaco, una Wittelsbach, della famiglia reale di Baviera. Politicamente, i Wittelsbach erano così meridionali e particolari da non amare gran che i lignei re di Prussia (poi imperatori tedeschi, gli Hohenzollern), e da detestare apertamente Hitler. Da quella famiglia proveniva il re bavarese Luigi II, o Ludwig (morto suicida, e a cui l’astuto Richard Wagner ha dovuto parte della sua fortuna pubblica), ed Elisabetta, o Sissi, appassionata del poeta Heinrich Heine, imperatrice d’Austria-Ungheria (era moglie di Francesco Giuseppe), e morta sul lungolago di Ginevra, nel 1898, per una pugnalata dell’anarchico italiano Luigi Luccheni.
Lei, Maria Elisabetta, era cresciuta in Ungheria nel primo dopoguerra, ma negli anni Trenta, tornata a Monaco, incrociava i fatti della vita: il matrimonio, ben riuscito, con Dom Pedro Henrique de Orléans e Bragança (1937), pretendente al trono imperiale brasiliano, e l’ostilità dei nazisti. In particolare verso un onesto zio di lei, il prinz Rupprecht. Seguivano i fatti della vita incastrati nell’esilio e nella guerra: dopo un trasferimento in Italia, e pochi anni in Francia, la coppia sbarcava finalmente a Rio, andando a vivere nel Palácio Grão Pará [◎ GEO-LOCALIZZA], una residenza ex imperiale restituita alla famiglia nel 1921. Avrebbero poi scelto una casa più contenuta nel quartiere Retiro.
A quel ritiro fu sottratto Dom Pedro, morto nel 1981. Ma intanto, quei dodici figli erano diventati grandi, e la loro nascita copre un arco di vent’anni. L’ultima, una ex ragazza del 1959, si chiama Gabriella Maria, il primo, Gastone Luigi, o Dom Luís, ha oggi 73 anni, ed è l’erede al trono.
Un trono che ha tenuto per 67 anni, dal 1822 al 1889: due imperatori, due Dom Pedro (primo e secondo) della famiglia reale portoghese – Braganza, o Bragança – con una successiva aggiunta in prima posizione (incroci di nozze dinastiche) del nome Orléans, celebre e cadetto della casa reale di Francia.
Ogni tanto la storia si diverte a restaurare. Non necessariamente per andare indietro: basta vedere Juan Carlos a Madrid. Magari anche nell’emergente Brasile, dopo un presidente “Lula” ex sindacalista, e una presidentessa “Rousseff” (socialista, in carica, e di radici mezze bulgare), un colpo di originalità molto postmoderna potrebbe ridare una spinta in alto anche a un “Orléans e Bragança”. Per ora, come sentenziava, nel 1780, un cortigiano a Versailles «l’Histoire s’amuse dans une routine parfois pittoresque».
L’immagine di questa settimana: «Settings – Cloackroom#2», della fotoartista svedese Sara Appelgren, 2005.