Quando i socialisti di Filippo Turati trionfano alle elezioni del giugno 1914 – 64 seggi su 80 – la borghesia milanese storce assai il naso. «Barbarossa a Palazzo Marino», titola il Corriere della sera, tanto per far capire da che parte stava. La candidatura a sindaco viene offerta a Luigi Majno, che non accetta, e poi a Emilio Caldara.
Sarà «il sindaco di tutti i milanesi», come avrà modo di sottolineare Turati, mentre il Corriere lo contraddice dicendo che amministrerà soltanto per il «proletariato rigorosamente socialista». Nel dibattito interviene anche il direttore dell’Avanti!, Benito Mussolini, proponendo di boicottare il re. «Si sappia che se Sua Maestà Vittorio Emanuele avesse idea di venire a Milano, troverà il portone di Palazzo Marino solidamente sprangato», scrive il futuro Duce. Nulla di tutto ciò accadrà. La giunta Caldara, invece, varerà una serie di progetti che ancor oggi condizionano la vita di Milano: la metropolitana, innanzitutto, concepita proprio in quegli anni, ma realizzata soltanto dopo due guerre; il canale navigabile per unire Milano all’Adriatico attraverso Cremona e il Po, inaugurato soltanto un paio d’anni fa, con quasi un secolo di ritardo. Ma anche la Stazione centrale, il Tribunale, l’ospedale Niguarda vengono varati dalla giunta Caldara, opere interrotte a causa della Prima guerra mondiale, e poi riprese dal fascismo che se ne impossessa facendole passare per sue.
Proprio l’atteggiamento di Emilio Caldara nei confronti del primo conflitto mondiale è uno dei tratti che sottolineano il suo altissimo senso delle istituzioni. Pacifista convinto, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, il 24 maggio 1915, fa di Milano la città italiana che più sostiene le sue forze amate. «La giunta ha iniziato l’assistenza alle famiglie dei richiamati alle armi con integrazione municipale dei sussidi governativi; ha provveduto alla riorganizzazione dei servizi pubblici, allestito gli alloggi temporanei dei militari, collaborato alla creazione di ospedali di riserva, predisposto i raccordi tranviari per il trasporto dei feriti, fino alla definizione di un piano d’assistenza nelle scuole per i figli dei richiamati. Gli impegni di Caldara verranno quindi pubblicizzati il 24 maggio, con un celebre manifesto rivolto ai cittadini, nel quale la giunta si impegna a compiere il proprio dovere. Il manifesto si rivolge, e il fatto è significativo vista l’origine politica dello stesso, anche ai cittadini soldati: «Poiché a voi è destinato il destino d’Italia, nutrite del vostro sangue più caldo le speranze, anzi la certezza della vittoria: non fiacchi l’austera accettazione del sacrificio ineluttabile l’affanno delle famiglie abbandonate: noi, Giunta socialista, nel nome della cittadinanza, a voi tutti, ma ai più poveri specialmente, ai proletari, che ci sono più vicini, giuriamo di provvedere perché non manchi pane ed assistenza ai vostri bimbi e alle donne su cui si abbatte oggi, come sempre, il più grave peso e l’ansia della guerra», ricorda Marco Cuzzi, docente di storia contemporanea all’Università Statale di Milano, nel suo saggio La Madonnina in grigioverde. Già il 25 maggio, ovvero un giorno dopo l’entrata in guerra, al Comune di Milano cominciano a funzionare sette nuovi uffici con compiti di assistenza alla popolazione. Sono i vigili urbani (quelli non partiti per il fronte) a occuparsi di distribuire i sussidi ai cittadini. «Il comitato di Caldara, nonostante le polemiche che scatenerà il pacifismo del primo cittadino, sarà riconosciuto come uno dei più ramificati ed efficienti enti di assistenza alle forze armate dell’intero Paese: un grande e complesso organismo di governo delle varie forme di solidarietà verso i militari (e i civili coinvolti nel conflitto) da un lato, dall’altro di coordinamento delle varie forme di beneficenza privata o nazionale», scrive ancora Cuzzi.
Il comitato viene liquidato nel 1919 (a conti fatti avrà distribuito trenta milioni di lire dell’epoca, in buona parte donati da privati, non necessariamente socialisti), ma non finisce la politica di assistenza del Comune. È in quegli anni che nasce il detto «Milan col coeur in man». Nel medesimo 1919 Caldara, in nome dell’internazionalismo socialista, va personalmente a Berlino a raccogliere bambini bisognosi per poi ospitarli a spese del municipio.
La giunta Caldara, in linea con la tradizione socialista, è attenta alle politiche sociali: promuove l’Azienda consorziale dei consumi al fine di «togliere alla speculazione il rifornimento dei generi alimentari di più ampio consumo» (latte, pane, olio, scarpe, vestiti, legna, carbone), molto gradita dai cittadini di tutte le tendenze, malgrado l’ostilità di una parte degli esercenti; apre scuole elementari e scuole “speciali” per handicappati. Nel 1916, alla scadenza della concessione alla Edison, municipalizza i tram e soprattutto costituisce l’Ente autonomo del teatro alla Scala, il cui primo direttore è Arturo Toscanini.
Nel 1920 Emilio Caldara sa che non sarà rieletto sindaco perché il Psi milanese è ora in mano ai massimalisti (lui è riformista), ma accetta ugualmente di capeggiare la lista che vince ancora una volta le elezioni. Viene eletto sindaco Angelo Filippetti, ma dura poco: il 3 agosto 1922 le squadracce fasciste occupano Palazzo Marino. Caldara muore nel 1942.
Se Milano oggi è la città che noi conosciamo, lo deve in buona parte al suo sindaco rosso che tanto terrorizzava i benpensanti di inizio Novecento.