Ha senso provare a ragionare sulla 54esima Biennale di Venezia in termini di coerenza di fondo del progetto curatoriale, o dovremmo attenerci a un modello di fruizione ricalcato sulla frammentarietà degli interventi, accontentandoci di una tasting experience? La tentazione di verificare la tenuta di fondo del titolo scelto dalla responsabile della Kunsthaus di Zurigo, Bice Curiger, “ILLUMInazioni” è neutralizzata dall’evidenza che persino la denominazione prova a ricomporre in qualche modo uno sforzo di aggregazione per analogia di idee, linguaggi e spinte verso l’esterno, che non si esauriscono nel format strutturale dei padiglioni nazionali, e finiscono per produrre ulteriori espansioni, spacchettamenti, frapposizioni.
La Biennale è in definitiva una creatura polimorfa, che si allunga ben al di là dell’Arsenale e dei Giardini, e ha ormai occupato tutta Venezia, con dislocazioni e declinazioni incompatibili con la verifica di uno sguardo d’insieme.E se dalla veduta aerea vogliamo provare a stringere l’inquadratura sino a racchiudere solamente l’essenziale, ci potremmo serenamente fermare alla stanza principale del padiglione centrale, quello che ospita la mostra internazionale, e che la Curiger ha riservato alle tre tele di Tintoretto, precipitando un pezzo della Venezia del Cinquecento nella Venezia di oggi.
Guardando il grande dipinto dell’ “Ultima Cena” di San Giorgio con gli stessi occhi de “L’ultimo turista” di Jean Paul Sartre, potremmo limitarci ad annotare che l’illuminazione viene da un lume interno al quadro, e però eccentrico rispetto alla composizione. Né d’altronde l’azione privilegia i personaggi principali: l’atto dello spezzare del pane è disperso nell’accumulazione aneddotica di dialoghi, posture, gesti, occupazioni.
Più che essere misura e monito per gli artisti contemporanei, il telero lascia attoniti come i piccioni imbalsamati di Cattelan. Al grande spettacolo dell’arte contemporanea nessuno ci ha invitato, né ci verrà chiesto cosa abbiamo capito. Il nostro ruolo si esaurisce in una specie d’incombente stupore, continuamente alimentato con il ricorso a emozioni fuori scala, da consumare in una drammatica compressione temporale. Ci viene servito come finger food, ma ogni salatino ambisce a essere una torta nuziale.
E se la pittura di Tintoretto brucia materia e colori e non si preoccupa della propria instabilità, incarnando sino in fondo la sua appartenenza a un’epoca di crisi, l’ossessione degli artisti di oggi è garantire allo spettatore che l’opera, per quanto ciclopica, si esaurisce in un tempo straordinariamente più breve della vita. Il lavoro emblematico di questa Biennale è in tal senso la riproduzione in cera del “Ratto delle Sabine” del Giambologna di Urs Fisher, davanti a cui è sistemato uno spettatore con una candela accesa. Il sudafricano Nicholas Hlobo ha realizzato invece con vecchi copertoni di biciclette, legno e stracci un colossale uccello-vampiro, simile a uno pterodattilo, che rimanda ai canti tribali della cultura Xhosa, e la cui presenza sembra esorcizzata da quella carne di fantoccio dell’arte povera, nato da quegli stessi cumuli polverosi da cui hanno attinto Pistoletto e Boltanski.
A completare questo prepotente ritorno della scultura è il giovane argentino Adrìan Villar Rojas, che per il padiglione della sua nazione ha creato un’installazione site-specific, costruita attraverso la presenza di una serie di opere monumentali in argilla. Questi volumi che disattendono il nostro tentativo di agganciarne la forma a qualcosa che abbiamo già visto, come se fossero produzioni di un’arte extraterrestre o di una civiltà sconosciuta del passato, confermano la sensazione di una volontà pervasiva di far slittare la produzione artistica fuori dal nostro tempo, come se il paradigma dominante di questa Biennale possa essere inscritto in una paradossale, ossimorica idea di “inattualità del contemporaneo”.
E in un luogo come Venezia, proprio le inesauribili possibilità offerte dalla forzatura del site specific danno luogo a esiti che, anche quando non appartengono al percorso ufficiale della Biennale, sembrano legate allo stesso discorso, profondamente radicate in un momento delle arti figurative in cui consistenza ed evanescenza sembrano indivisibili. Così è anche per “Ascension”, l’intervento di Anish Kapoor a San Giorgio, una colonna di vapore e di luce che, per mezzo di un sistema d’aspirazione collocato nella cupola della basilica, diventa un vortice ascensionale, continuamente instabile e in mutazione, che sembra dirci del carattere episodico ed epifanico dell’arte, del suo esistere come forma solo grazie alla registrazione dell’occhio, e, dall’altra parte, della stretta connessione con la magia e il miraggio, della compenetrazione tra mistica e inganno.
Per provare a uscire da quest’ipotesi di arte come “grande illusione” bisogna allora cercare quei lavori che scelgono espressamente il territorio dell’attualità come luogo di racconto.
E allora non è forse causale che la proposta più interessante, come è accaduto negli ultimi anni in altri segmenti delle arti visive, dalla fotografia al cinema, venga da Israele, il cui padiglione nazionale è stato affidato a Sigalit Landau, che conchiude il senso del suo intervento alla deformazione di un proverbio popolare, «Il pavimento di un uomo è il soffitto di un altro». Il tema della difficile convivenza tra israeliani e palestinesi viene ricondotto al duplice apparato simbolico di acqua e sabbia. Condotte idrauliche che diventano sculture, giochi di ragazzi sulla spiaggia che sembrano mimare la volontà di ridisegnare confini e appartenenze, attraverso solchi e tracciati disegnati con un bastone, segni che il mare è pronto a cancellare, e ancora il richiamo al sale, simbolo della cristallizzazione della realtà.
E riappropriazione del tempo come luogo in cui i fatti e le esperienze umane (a anche l’arte, al di là di ogni escapismo, appartiene), tornano drammaticamente a depositarsi, invece che attenersi alle regole effimere della consunzione.