Il modo in cui è partita la discussione sulla riforma fiscale non promette assolutamente nulla di buono. Ci sono infatti almeno tre punti che denotano una debolissima impostazione di fondo.
Primo, è senza alcun fondamento empirico l’idea che sia possibile ottenere effetti aggregati di una qualche rilevanza semplicemente slittando le imposte da una parte all’altra. Questo punto è stato spiegato molto bene da Roberto Perotti sul Sole 24 Ore, per cui non è necessario ripetere.
La sua osservazione è estremamente pertinente: “Il fatto è che per un Paese con livelli di tassazione come quelli italiani, l’unica vera riforma fiscale è quella che abbassa le tasse totali; ogni altra riforma è un palliativo.” Abbassare le tasse richiede naturalmente, data l’attuale situazione del debito pubblico, che si riducano prima le spese. Questo è improbabile, se non impossibile, che accada con un governo che si regge su una maggioranza parlamentare risicatissima e in cui qualunque minuscolo gruppetto di deputati può porre il veto a riduzioni di spesa. Se aggiungiamo a questo il fatto che la spesa per interessi molto probabilmente crescerà nei prossimi mesi, è abbastanza chiaro che lo spazio per una riduzione complessiva della pressione fiscale non c’è.
Secondo, è abbastanza assurdo parlare della riduzione del numero di aliquote come di una “semplificazione” del sistema tributario (tra l’altro: possibile che tutti ripetano in modo meccanico la storia delle tre aliquote a 20, 30 e 40 senza segnalare che, in assenza degli scaglioni a cui si applicano, vogliono dire quasi nulla?). Non c’è assolutamente nessun problema nel calcolare l’imposta quando ci sono tante aliquote. La semplificazione non si fa sul numero di aliquote ma sulle innumerevoli clausole, cavilli, eccezioni, esenzioni, provvedimenti speciali e chi più ne ha più ne metta che compaiono nel codice tributario.
Queste sono le norme che complicano il sistema fiscale. Il costo di queste norme non è tanto che fanno faticare un po’ di più qualche commercialista zelante, ma che distorcono il sistema fiscale favorendo alcuni tipi di reddito, tipi di consumi, tipologie contrattuali e altre varie cose rispetto alle quali l’imposizione sul reddito dovrebbe invece essere neutrale. Il ministro Tremonti annuncia ora di voler attaccare questa “Torre di Babele” delle esenzioni fiscali, ma la sua azione fino ad ora è andata esattamente in direzione contraria.
Partendo dalle misure di esenzione di straordinari e premi di produzione promulgate subito dopo la formazione del governo fino ai “bonus” per l’occupazione del recente mal-chiamato decreto sviluppo è stato un continuo introdurre complicazioni, eccezioni, esenzioni. E stendiamo un velo pietoso su altre imbecillaggini degli ultimi mesi, di cui tutti sembrano essersi scordati, come la promessa di fare di Milano un centro finanziario esentasse o la minaccia di eliminare le detrazioni a chi compra macchine troppo grosse. La credibilità del ministro su questo fronte è quindi nulla. Terzo, l’idea che sia sempre e comunque bene ridurre la tassazione diretta, ossia dei redditi, in cambio di un aumento dell’imposizione indiretta, ossia sui consumi, non ha alcun fondamento né teorico né empirico.
E, francamente, non è molto bello lo spettacolo di un ministro che prende per i fondelli i suoi cittadini raccontando che sposta la tassazione dalle “persone” alle “cose”. Risulta infatti che i cittadini che vanno a far la spesa e pagano le imposte indirette sono effettivamente persone. L’argomento a favore di uno scambio tra imposizione diretta e imposizione indiretta è che in tal modo si ottengono due risultati. Da un lato, la riduzione dell’imposizione sui redditi incoraggia una maggiore offerta di lavoro, visto che il reddito netto è più alto. Dall’altro, la maggiore tassazione del consumo dovrebbe incoraggiare gli italiani a risparmiare di più, con conseguente espansione dell’offerta di capitale e quindi della produttività. Entrambi questi effetti sono discutibili dal punto di vista teorico.
Per l’offerta di lavoro ciò che importa è il salario reale netto, ossia il rapporto tra salario nominale e livello dei prezzi. Una diminuzione delle imposte dirette fa aumentare il salario nominale netto, ma un aumento dell’imposizione indiretta fa aumentare i prezzi e quindi riduce il salario reale. L’effetto netto non è chiaro. Per quanto riguarda l’aumento della propensione al consumo, va ricordato che il risparmio è in realtà consumo futuro. Se si ritiene che l’aumento della imposizione indiretta sia permanente, ossia il livello più alto delle imposte indirette continuerà nel futuro, allora non è affatto ovvio che vi sia un incentivo a risparmiare di più. Alla fine la questione diventa di stime empiriche dei differenti effetti, e al momento non si è visto nulla di particolarmente convincente a supporto di una maggiore tassazione “delle cose”, come furbescamente dice Tremonti.
E forse grossi sforzi di stima non vale nemmeno la pena di farli, dato che per forza di cose l’entità di qualunque manovra non potrà che essere assai limitata. In sostanza, un’altra falsa partenza per un paese che invece ha disperato bisogno di una partenza vera. Dopo anni passati a raccontare fandonie sui conti in sicurezza e su un paese che stava facendo meglio degli altri è comprensibile che i nostri governanti siano riluttanti a dire la verità. Purtroppo per loro, sembra che i cittadini alle fandonie facciano sempre più fatica a credere. Come diciamo in Amerika, you can’t fool all the people all the time.