Se ne sono andati

Se ne sono andati

Alys Robi

(3 Febbraio 1923 – 28 Maggio 2011)

Alice Robitaille, canadese di Québec Ville, era il suo nome non d’arte. La «prima cantante franco-canadese di musica popolare ad avere una carriera internazionale», era nata nel quartiere operaio di Saint-Sauveur, aveva un padre pompiere (e lottatore), e ha catturato la passione del suo pubblico soprattutto con i ritmi e il repertorio latino-americani tipo Besame mucho e Tico tico. Tradotti anche in francese, ma non meno intensi in questo passaggio espressivo. È morta a 88 anni passati all’ospedale Maisonneuve-Rosemont di Montréal. Nel 1930 – a sette anni – presentandosi in concerto, per la prima volta, al Théâtre Capitole di Québec, prometteva, con la sua voce, la sempre amata evoluzione da enfant prodige a adulte prodigieuse.

Con quel genere di esordio – non acerbo, ma naturale quando si ha la canzone e la musica incorporate – la sorte può giocare, ogni tanto, tutta la sua ferocia. Interrompendo, di botto, il percorso del prodigio. O sospendendolo con il lancio di un trauma. Fino ai 25 anni, incrociando la propria età dello sviluppo, anche artistico, con la guerra mondiale, Alys Robi ha volato sicura, e brava, su più fronti. Rose Oulette – la star chanteuse canadese di allora, detta “la Poune” – le insegnava, a tambur battente, come perfezionare le sue arti: cantare, recitare, tenere la scena. Tambour battant era anche il programma radiofonico dove Alys, protagonista, incoraggiava i soldati del suo Paese che combattevano, dentro l’Impero britannico, contro tedeschi e giapponesi. Andava anche a cantare nelle basi militari, secondo il modello Marlene Dietrich. E poi, in pochi anni, fino al 1947, conquistava una serpentina di città regali, di cabaret, di radio: Toronto, Londra, Parigi, New York, Città del Messico, Rio de Janeiro si appassionavano a quella ragazza francofona che aveva scoperto come imitare, a modo suo, Carmen Miranda e i ritmi latinos, passando dallo spagnolo, al portoghese, all’inglese, o traducendo il tutto, nei suoni, carezzanti, della sua lingua madre.

L’arrivo a Hollywood coincideva con l’opera del destino carogna: sotto forma di un duro incidente di macchina, durante un viaggio verso Las Vegas. Al crash seguiva una depressione senza pietà, curata, lungo cinque anni al chiuso dell’Asile St. Michel-Archange di Québec (oggi si chiama Centre Hospitalier Robert-Giffard). La catena (termine proprio, in questo caso) della terapia ha torchiato la povera Alys con psicofarmaci, elettroshock, e una lobotomia finale. I tempi e i rimedi, molto primitivi per chi veniva classificato «maniaco depressivo», erano quelli. Ed erano anche anni convenzionali e poco magnanimi verso le persone guarite o uscite dalla malattia: restavano dei «matti» inchiodati alla contenzione di quel termine. Alys Robi, che aveva, all’inizio, rifiutato di farsi lobotomizzare, poi aveva detto di sì, e che molto dopo si sarebbe autodefinita «un raro caso di riuscita» di quell’operazione, usciva «dimessa» dall’ospedale, ma ormai, anche lei, con addosso quella denominazione d’origine e incontrollabile dai più. E per di più quasi povera. Vivre indigente, come si dice, e hanno scritto, nella sua lingua materna.

Dalla fine degli anni Settanta in poi, ce l’avrebbe fatta a rientrare in una scena «normale» e più generosa: su di lei e la sua vita, si scrivevano canzoni (la più celebre Alys en cinémascope, di Luc Plamondon), tesi di laurea, soggetti televisivi, e si creavano premi permanenti di cabaret. Mentre lei, in tutta naturalezza sceglieva dove andare ad affiancarsi (come testimonial dei diritti dei malati mentali) ed eventualmente a cantare: nell’estate 2005, la Fierté gai – o Gay Pride, dato che il Canada è bilingue – di Québec aveva lei come ospite-amica (dopo che lei aveva già dato, sei mesi prima, un immense spectacle al celebre bar Le Drague de Québec).

David C. Baldus

(23 Giugno 1935 – 13 Giugno 2011)

Giurista americano, di Wheeling, West Virginia. Studioso di «criminal law» e, in particolare, dei procedimenti e dei pregiudizi che portano alla pena di morte. Aveva 75 anni. Già studente alla Yale Law School, insegnava, dal 1969, all’Università dello Iowa. È morto ad Iowa City.

L’oggetto della sua «pioneering research on race and the death penalty» (questa la sintesi introduttiva del New York Times) potrebbe anche avere il titolo di uno studio di qualche anno fa: «La pena di morte in nero e in bianco: chi vive, chi muore, chi decide».

Nel 1987, Baldus, insieme ad altri due giuristi, Charles Pulaski e George Woodworth, dimostrava, o mostrava, in una celebre ricerca (Baldus study) un pregiudizio base, statisticamente rilevato. Questo: gli imputati accusati di omicidio di vittime bianche, avevano un quattro per cento in più di probabilità di essere condannati a morte di chi era alla sbarra e rischiava la pena capitale per aver ucciso vittime nere. Un passaggio importante, e sottile: la discriminazione definitiva, cioè la condanna, poteva passare attraverso «the race of the victim». Anche se la race nera di un imputato poteva costituire una sorta di prologo psicologico. Baldus, Pulaski e Woodworth avevano lavorato su 250 casi di omicidio in Georgia, calcolando anche il peso di 39 variabili «non razziali».

Perché in Georgia? Lo studio di Baldus doveva servire di supporto alla difesa di un imputato – nero – di omicidio in quello Stato. Il caso si chiamava «McCleskey versus Kemp». Warren McCleskey era detenuto per due rapine a mano armata, e proprio durante la seconda aveva ucciso un poliziotto bianco. La giuria aveva ritenuto queste due circostanze aggravanti: l’omicidio avvenuto durante una rapina. La corte emetteva la sentenza di morte, ma la difesa faceva appello sostenendo che il processo era stato condotto «in a racially discriminatory manner» e in violazione del Quattordicesimo emendamento. E citava, a sostegno, la ricerca di David Baldus. Alla fine andò male, cioè alla Corte Suprema (che aveva revocato, dieci anni prima, la moratoria sulle esecuzioni capitali): i giudici, a maggioranza, sostennero che quello studio scientifico non era sufficiente a ribaltare il verdetto di colpevolezza. Negarono di fatto un’evidenza: il «racially discriminatory purpose», molto diffuso nelle corti di giustizia georgiane, e analizzato per quello che era dalla ricerca di Baldus e degli altri. E Warren McCleskey fu ammazzato con la sedia elettrica il 28 settembre 1991.

Nella tragedia in corso (del sistema americano che mantiene e applica senza incertezze la pena di morte), la ricerca e l’attitudine di David Baldus hanno la forza di una tappa. E di un’analisi pionieristica. Interna al sistema, e alle pulsioni di chi lo anima. Come ha detto, senza sentenziare, Anthony G. Amsterdam, giurista a New York e amico di Baldus: «Dave aveva un genio unico nel farsi strada fra una massa arruffata di informazioni e di fatti, facendo uscire allo scoperto le forze umane, decisive, che lavorano dietro la cosiddetta amministrazione della giustizia criminale».

Gil Scott-Heron

(1° Aprile 1949 – 27 Maggio 2011)

Musicista e poeta nero, di Chicago. Poi studente, per 365 giorni, in Pennsylvania (Lincoln University). Infine, e fino ai 62 anni, cioè alla sua morte (in ospedale), voce e musica denunciante e ironica da New York. Soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, quando l’avversario bianco, capitalista, guerrafondaio, padrone e imbonitore dei media, era chiaro. E attaccabile anche con una lirica armata (in particolare, pre-rap).

I poeti che non poetano, ma che invece sputano poesia, possono dare di getto l’immagine, il clima, la visione in avanti, e il ritmo. La lirica più celebre di Gil Scott-Heron (del 1974) ripete, a capoverso ripetuto, che «la rivoluzione non passerà per la televisione» (o non «sarà trasmessa») e dice, o canta, parlando, queste e altre cose: «Non sarai capace di restare a casa, fratello… Salta fuori durante la pubblicità della birra… La rivoluzione non ti sarà offerta dalla Xerox in quattro parti senza interruzioni pubblicitarie… La rivoluzione non di farà apparire più magro di cinque libbre… La rivoluzione sarà in diretta».

Passati i trent’anni, dopo aver pubblicato canzoni dai titoli immediatamente poetici e anche realistici (uno fra tutti, si chiama Pieces of a Man, del 1971), Gil si ritrovava, come tutti gli americani e il mondo, dentro i tempi di Ronald Reagan, e attaccava in questi termini: «Vogliono tornare indietro, vogliono nostalgia. Non per affrontare l’oggi o il domani, ma per affrontare il passato. Quando l’America si ritrovò in difficoltà ad affrontare il futuro, cercarono persone come John Wayne. Ma siccome lui non era più a disposizione, si risolsero per Ronald Reagan. E questo fatto ci ha messo in una situazione che possiamo solo guardare come un film di sertie B».

«Affrontare il passato»: ecco un colpo d’occhio, e lirico, da tener presente. «Una situazione che possiamo solo guardare come un film di serie B»: ecco una constatazione, o una condizione, che ci può capitare addosso ogni momento.

In Message To The Messengers, del 1993, la base, o l’avvertimento, investiva i «comunicatori» dilaganti, anche se il messaggio era rivolto, nello specifico, ai rappers: «Le parole di quattro lettere o quelle di quattro sillabe non ti faranno diventare un poeta, mostreranno solo quanto sei superficiale, e tutti lo capiranno!». Avrebbe aggiunto che l’eccesso di slang e di parole «colloquiali» non facevano «vedere  dentro la persona«, ma mostravano «molta affettazione».

(Negli ultimi dieci anni, Gil Scott-Heron ha avuto un periodo di galera: per droga e violenza privata. Un libro su di lui, del 2004 – di poesie, autore Mark. T. Watson – ha un titolo poetico e vitale: Un tipo ordinario).

Il quadro di questa settimana: «Silent syndicate», dipinto dell’artista britannico Nick Gentry (“ascolta” i suoi quadri), olio su floppy disc e legno, 2010.