Se ne sono andati

Se ne sono andati

Lawrence Sidney Eagleburger

(1° Agosto 1930 – 4 Giugno 2011)

Di Milwaukee, Wisconsin, ex Segretario di Stato americano con George Bush senior. Repubblicano non estremo, detestava, da studente, il senatore Joseph McCarthy (quello degli anni Cinquanta e della caccia grossa ai “comunisti”), e liquidava, qualche anno fa, con un aggettivo, la governatrice dell’Alaska Sarah Palin: «Non preparata». Molto asmatico, è morto d’infarto all’University of Virginia Medical Center della città di Charlottesville.

Otto Dicembre 1992 – 20 Gennaio 1993. Poco più di un mese di carica al Dipartimento di Stato, a ridosso del cambio di presidenza da Bush padre a Bill Clinton, e una constatazione di fatto: raramente, forse mai, si era visto un titolare americano dei rapporti col mondo così poco fasciato nel suo ruolo. Lawrence S. Eagleburger fumava come un vulcano, o come un balcanico (era stato ambasciatore a Belgrado, mandato lì da Jimmy Carter), era allegramente molto grasso, si muoveva con la gamba sinistra ricostruita al titanio, si vestiva con la decontrazione di completi fatti in serie, e dimostrava i suoi 62 anni con un amalgama di espressioni tenaci e scettiche. Una specie di Quinlan [TRAILER] non infernale con una marcia distintiva: era passato di scatto a quella massima carica – dopo essere stato stimato e portato avanti da Henry Kissinger – quando aveva già impilato strati di esperienza nel marchingegno della politica universale degli Stati Uniti. In parole semipovere, non era un sapiente esterno (come Kissinger) né un ritratto di muscolatura diplomatica (come erano stati, con Ronald Reagan, l’uomo d’affari George Shultz, e l’elegante generale Alexander Haig), ma un uomo della macchina che, lì dentro, liberava un acume non convenzionale.

Sperimentato fin da quando era ragazzo, anzi figlio. Di suo padre, lo stimato medico Leon Eagleburger, spiegava come fosse, politicamente, «alla destra di Gengis Khan». Nella pratica successiva, da adulto uomo di Stato, e poi da politico ritirato, Eagleburger figlio avrebbe mantenuto quel timone ironico e praticamente accorto: osservare le visioni estreme di chi pensava come lui («repubblicano»), ridurne i termini crociati, e utilizzarsi come «specialista nelle crisi». O almeno come esperto che sapeva dove andare a riparare, in campi e Paesi che erano alla portata delle sue conoscenze. Quando Bush senior, nel 1989, gli affidava la vicesegreteria di Stato (il numero due degli Esteri, diretti dallo stirato Jim Baker III), la Jugoslavia si stava ferocemente destrutturando. I consigli, e le missioni, di Eagleburger erano interni a quell’affare europeo: per tre anni (1977-1980) nella sede diplomatica di Belgrado, con buona padronanza del serbocroato e un’osservazione quotidiana dello stato preagonico di quel Paese (negli ultimi tre anni di vita del maresciallo Tito), era in grado di dire cosa passava per la testa ai serbi, soprattutto (la parte in causa che, non in fondo, prediligeva). Quando, poi, due anni dopo, sempre il primo Bush sferrava la Guerra del Golfo sperimentando, come un debuttante, un feeling armato insieme ai Paesi arabi “amici”, al massiccio vicesegretario di Stato spettava una missione più materiale, e riuscita: dire, anzi ordinare, allo stizzito primo ministro israeliano Yitzhak Shamir (un Likud, ex polacco, dispettoso, e molto estremo) di non unirsi, anche lui, all’attacco contro Saddam Hussein. E questo, con tutta la comprensione verso Israele e i suoi cittadini che si vedevano piovere in testa, dal nordest della mezzaluna fertile, una catena di missili Scud iracheni.

D’altronde, a protezione dell’universo ebraico (in senso lato, o storico), il protestante-luterano Lawrence Eagleburger avrebbe dimostrato mastine qualità negoziali. Fuori dalla politica di Stato, nel 1998, presiedeva la International Commission on Holocaust Era Insurance Claims, una commissione che doveva decidere sulle migliaia di richieste d’indennizzo (veri e propri ricorsi) presentate a un buon numero di società assicurative d’Europa dai parenti, o dai discendenti, di altrettante migliaia di vittime della Shoah. Il bilancio, o il risultato, della gestione Eagleburger, alla fine, ha fatto giustizia con buoni numeri: 360 milioni di dollari ottenuti e poi distribuiti fra quasi 50mila beneficiari in 15 Paesi. E questo, dopo aver esaminato, e combattuto, su 90mila ricorsi corredati da 78mila deposizioni registrate.

Nell’ultimo decennio della sua vita, uno dei più brevi segretari di Stato della storia americana, è riuscito a non far invecchiare né le sue doti, né i suoi limiti. In piena epoca di Bush figlio, ha attaccato l’intervento in Iraq (insieme a Jim Baker, il suo ex titolare al Dipartimento di Stato), mettendo in dubbio totale il pretesto delle armi chimiche irachene. Nel tempo di elezioni subito successivo ha liquidato il candidato democratico Barack Obama come «un imbonitore», dopo aver steso tutta la sua disistima sull’agit-prop repubblicana Sarah Palin. Era la stessa persona, o lo stesso politico, che Richard Nixon, col suo linguaggio non proprio regale, aveva definito «intelligente come un topo d’armadio, o da cesso».

Maqbool Fida Husain

(17 settembre 1915 – 9 giugno 2011)

Pittore e scenografo indiano e musulmano. La sua arte, contemporanea, è stata spesso accompagnata dalla definizione «il Picasso dell’India». La sua celebrità era anche dovuta ai molti poster cinematografici realizzati per Bollywood. La sua libertà espressiva lo ha portato ad autoesiliarsi dal suo Paese. Infatti è morto a Londra, al Royal Brompton Hospital. Aveva 95 anni.

Novantacinque anni in un insieme fisico che avrebbe potuto ricordare un’affiche di Rodčenko costruita su un’espressione indiana: la faccia romboidale, i capelli lunghi, ordinati, e iperbianchi come la barba, gli occhiali, il sorriso geometrico più controllato nelle linee che saggio. L’opposto di un santone, o di un semplice santo, ammesso che ne esistano per definizione e non solo per carattere. Un musulmano che ha lavorato con le immagini, un artista pop (ma molto amato e acquistato dalle élites) che presentava il cinema, un pittore del Novecento abituato a spogliare, o a “destrutturare”. Senza far troppo i conti, prima di un’opera, con le conseguenze secolari che avrebbero potuto cambiargli la vita, una volta compiuta l’opera.

Nell’induismo, la dea Sarasvati è ai vertici della conoscenza e della venerazione: è la moglie di Brahma, l’ispiratrice delle arti (della musica, in particolare), e protegge anche i devoti buddisti, perché ha sovrainteso alla formazione del Buddha Gautama. Insomma è una donna e una madre per eccellenza infinita: localmente, la madre dell’India e degli indiani (non musulmani, o indifferenti, naturalmente).

Nei primi anni del ventunesimo secolo, a Hussain ultraottantenne è venuto in mente, per estro d’artista, di togliere i veli a quella madre, di farne una desnuda: nel quadro lei è sui ginocchi, completamente allo scoperto, e riconoscibile perché disegna, col suo corpo, la forma, i confini dell’India. Una specie di mappa femminile e genitrice. [VEDI IL QUADRO] Le conseguenze: un bel po’ di cause legali contro l’autore, e soprattutto minacce vere da parte dei gruppi hindu estremi (e non pochi, e influenti). La decisione di Hussain, anche consigliato di chi lo ammirava, come artista dei nostri tempi e un indo-musulmano coraggioso: andarsene, con molta tristezza. Prima a Dubai, dal 2006, e poi in Inghilterra, una madre di ritorno per molti creatori del subcontinente. Anzi, del Raj britannico di una volta (India più Pakistan). E pensare che all’inizio della sua maturità artistica, Hussain dipingeva prevalentemente cavalli (come il peggior de Chirico), e, soprattutto, già dagli anni Settanta, gli hindu più intolleranti lo avevano pubblicamente indicato come molto «irrispettoso».

(Anche chi non ama la psicoanalisi, può riconoscere in questo racconto vero un sottostrato da prendere in considerazione. Un vecchio creatore che decide di spogliare la stessa madre di centinaia di milioni di persone, perché non può farlo con la sua. Anche perché la sua potrebbe, molto pericolosamente per lui, chiamarsi Khadija, la moglie del Profeta, Muhammad, o Maometto. E quei milioni di persone che gliela giurano. Formalmente con un giudizio di blasfemia. Di fatto inconscio, perché avrebbero voluto, tutti loro, uno per uno – solo uomini, ovviamente –, fare la stessa cosa).

Il quadro di questa settimana: «Felicidad garantizada», del pittore cubano Denis Nuñez Rodríguez, olio su tela.

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