Prima o poi il centrosinistra sceglierà il suo leader. Sarà l’attualmente iroso Bersani, sarà l’arrovellato Vendola, oppure l’iper-mediatico Renzi o, se gli viene voglia e coraggio, il riformista Chiamparino? Dal mazzo dei competitor manca il nome di quello che avrebbe potuto essere il Miliband italiano (David o Ed fate voi!). Parlo di Enrico Letta che negli ultimi tempi abbiamo visto più volte in tv, difensore accanito della moralità del Pd e del suo leader. Fin dal principio della sua carriera politica, Letta è stato eternamente sospeso fra il ruolo di outsider e quello di braccio destro. Ha scelto, infine, quest’ultima missione al fianco di un segretario con le stimmate di ex comunista ben marcate nella propria biografia e nello stesso linguaggio.
Letta nasce bene, politicamente e intellettualmente, intendo. Laureato a Pisa, cattolico vero ma mai segnalatosi per ortodossia di fede, ha in casa una parentela eccellente, con lo zio Gianni con cui fece una singolare staffetta alla presidenza del consiglio nel passaggio tra l’ultimo sfortunato Prodi e il Berlusconi che assaporava il trionfo non vedendo la bufera che si stava addensando sopra la sua testa. Letta, nel senso di Enrico, è un giovane e promettente democristiano. Poco più anziano di lui, sulla scena calca i suoi stessi passi un altro figlio della Balena bianca, quel Dario Franceschini, più socievole e affabulatore ma anche più criticato per la rapidità con cui in tutti i partiti in cui ha militato, e che ha diretto, ha cambiato alleanze fino a rovesciarle. Letta non è di questa pasta. Il suo ingresso in politica avviene per la via della funzione tecnica, che lo vede, nei governi del centrosinistra cannibalesco del quinquennio 1996-2001, giovane ed esperto ministro. L’enfant prodige Letta viene da una grande scuola che ha come maestro indiscusso, da lui molto amato, quel Nino Andreatta che la leggenda racconta essere stato il vero inventore del nuovo centrosinistra e della candidatura di Romano Prodi.
Prima di fare il ministro Letta è ambasciator cortese del Ppi di Mino Martinazzoli, il dubbioso leader post democristiano, pessimista al punto da essere incapace di ridare vitalità al cattolicesimo politico. È lui che viene mandato da Giscard D’Estaing per chiedergli di presenziare al tentativo di mettere assieme il partito di Martinazzoli e il patto Segni. C’è già Kohl e il leader francese sembra una buona carta da spendere. Peccato che il successo della missione – Giscard disse di sì – si accompagnò ai dubbi sulla fisionomia troppo moderata dell’ex premier che spinse i popolari a revocare l’invito e il povero Letta ad annunciare il ripensamento all’interdetto Giscard.
È questo episodio a rappresentare bene l’eterno dilemma entro cui si è svolta la carriera di Enrico Letta, moderato e riformista, costretto a vivere e a collaborare con personaggi più a sinistra di lui. Per lungo tempo questa è stata la sua ossessione politica e il centro della sua iniziativa. Critico del bipolarismo ha lungamente sostenuto che il mondo politico italiano è tripolare, dividendosi in moderati, progressisti e populisti, categoria in cui ha messo sia l’ala radical del centrosinistra sia soprattutto Di Pietro che ha cercato invano di scacciare dal tempio dei riformisti.
C’è un momento in cui la carriera di Enrico sembra conoscere un’impennata. Il Pd appena nato brancola nel buio e i maggiorenti, D’Alema in primis, si rivolgono a Walter Veltroni per tentare di animare quel corpaccione senza vita. Veltroni accetta, fa un grande discorso al Lingotto, chiede le primarie, ma pretende che siano all’italiana, con i candidati forti dissuasi dallo scendere in campo. Tocca soprattutto a Bersani, già sacrificato qualche anno prima per fare spazio a un incontentabile Fassino, rinunciare anche a questa occasione. Solo Letta non ci sta. E corre da solo prendendo un buon risultato. La sconfitta onorevole è un buon viatico per un leader del futuro che da qui può costruire il successo di domani. Letta, invece, la capisce all’incontrario e sceglie di acquattarsi, mai più sfidando quelle stesse oligarchie che aveva accusato di essere troppo debitrici della tradizione comunista e di essere incapaci di «uscire dalla riserva indiana dei perdenti».
La rinuncia al primato politico non fa venire meno la sua battaglia culturale. Organizza la sua fondazione ereditata da Andreatta, si lega a un riformista doc come Umberto Ranieri, cerca di mettere radici nel partito lanciando nella gara contro Vendola il giovane economista Francesco Boccia che perde e neppure si radica in quella regione.
Il Letta intellettuale è il più significativo contraltare al Tremonti pensoso, con cui stabilisce un rapporto e una collaborazione. È lui che spezza le catene liberiste in cui si erano avvolti gli ex comunisti Veltroni e D’Alema, sentenziando che che l’Italia ha bisogno di «più stato e non meno mercato». È lui che avverte con grande capacità di visione che «quattro milioni di imprenditori sono al bivio tra chiudere e tener duro: se mollano cambia il modello Itralia». Il leader riformista non smette di pensare e di proporre, ma si mostra sempre più incapace di fare da solo. Forse per insicurezza, forse per calcolo, contando sul fatttore tempo, forse perchè la politica è quella che avvelena e spinge al ritiro Nichi Vendola e fece dire a Rino Formica che è «sangue e merda», sta di fatto che a poco a poco l’ex promessa sceglie la seconda fila e una carriera da vice, mentre attorno a lui si assiste al crollo del suo rivale Franceschini, alla caduta di Veltroni, al protagonismo irriducibile di Rosi Bindi e al sorgere della sbiadita stella bersaniana.
Se nel cielo della politica non splende il sole del giovane Letta, precocemente avviato verso un invecchiamento da coadiutore, resta aperto il tema del «giovane» che può aspirare a mandare in pensione la vecchia classe dirigente. Il paradosso della politica muscolare degli ultimi due decenni è che questa si sta combattendo tutta fra uomini del vecchio sistema politico. Letta rappresentava il possibile Caronte in grado di guardare avanti senza nascondere i segni delle battaglie antiche. Cattolico moderno, economista agguerrito, buon parlatore senza essere gergale e prolisso, riformista senza aggettivi. Resta da capire, a tempo quasi scaduto, che cosa vuol fare da grande. Se Bersani ha l’età giusta per diventare il Gordon Brown italiano, Enrico sta diventando troppo vecchio per fare il Miliband nostrano. Chi gli vuole bene gli dia buoni consigli e, soprattutto, una svegliata.