La scomparsa di Rubino Romeo Salmonì ha fato scrivere a Ruggero Gabbai, – il regista di Memoria, il documentario certamente più problematico che la cultura italiana sia stata in grado di produrre finora sul fenomeno della deportazione ebraica tra il 1943 e il 1945 e più in generale sull’Italia delle leggi razziali – che nella sua testimonianza che rimane in quel video conta la grande umanità, allegria e generosità nel testimoniare il grande buco nero del 900. Chi avrà la pazienza di riguardarlo si renderà conto che era proprio così. È importante sottolinearlo perché il quadro che si prospetta oggi sulla questione della memoria e sulle condizioni della memoria non è tranquillo. Non riguarda solo il fatto che la morte di Rubino Romeo Salmonì riduce di un’unità preziosa la pattuglia ridotta dei testimoni, ma riguarda soprattutto in quale clima politico, culturale e anche civile si iscrive questa scomparsa.
Al centro sta una partita rilevante che riguarda direttamente la memoria di Auschwitz. Nel doppio senso: 1) memoria di ciò che lì avvenne; 2) discussione pubblica sulla ricostruzione della memoria di Auschwitz che nel caso italiano significa quale sia il destino del memoriale della deportazione italiana che ad Auschwitz si trova, più noto come “Blocco 21”. Può darsi che in queste ore in cui prevale la riflessione sulla persona, queste considerazioni possano apparire improprie o “fuori tempo”, ma porre il problema della memoria e dei testimoni oggi significa prima di tutto sapere in quale partita culturale, emozionale, e anche civile si colloca il venir meno delle voci.
Il testimone non è mai uno che ha diritto di parola perché ha più cose degli altri da raccontare. È una figura che rappresenta un’esperienza che sarebbe tragico perdere: non solo per ciò che ha subito, ma anche, e forse oggi soprattutto, per come ha reagito.
La prima cosa che sta al centro del racconto del testimone è la consapevolezza che la storia è fatta di uomini e donne che la abitano, che la subiscono e che, talora, trovano anche la forza di reagire. Se quella vicenda è carica di dolore, essa contiene anche altre cose che hanno un alto valore per chi incontra quelle storie ed è chiamato a riflettervi e a farle proprie. Tra queste, due mi sembrano essenziali: il racconto è la storia della propria dignità, del modo in cui la si ritrova e la si rivendica con parole semplici, talora elementari, ma essenziali; 2) non subire la storia significa non solo farsi delle domande, ma anche non accontentarsi delle risposte emozionali o immediate che ci possiamo dare. Ovvero affrontare le questioni dolorose, contorte, e anche spinose che in quella partita si giocano. La testimonianza oggi non è solo un racconto (comunque non è mai stato solo un racconto), ma è un modo in cui si costruisce e si definisce una sensibilità pubblica su una vicenda fondamentale della cittadinanza per il XXI secolo.
Il complesso di questi temi allude a questioni diverse che raduno nei seguenti punti. Nell’ordine:
1) In Italia il confronto tra storia e memoria rispetto all’esperienza concentrazionaria del lager nazista, è aspro. Ci sono contraddizioni, problemi e conflitti in merito alla gestione e al controllo di quella memoria – complessa, molteplice, non univoca – sia da parte di chi rivendica la centralità dello sterminio ebraico, e dunque interpreta tutto il nazismo e il sistema concentrazionario dentro la Shoah, sia da parte di chi legge il sistema concentrazionario solo ed esclusivamente come un conflitto tra fascismo e antifascismo.
2) La memoria e la sua gestione oggi non rappresentano solo un modo di riappropriarsi del passato, ma anche uno per gestirlo. Secondo due modalità: da una parte definendo le infrastrutture culturali del futuro; dall’altra proponendo una dimensione monumentale del passato per sancire il nostro definitivo distacco. In breve: da una parte l’uso politico del passato, dall’altra una propensione all’oblio. Una partita che, qualsiasi sia la strada intrapresa, significa “impresa culturale” in cui sono coinvolti e sono in questione, investimenti, organizzazione e gestione di risorse, rapporti con le istituzioni, compromessi politici.
3) Il Memoriale è il risultato e di un profilo interpretativo che si riassume dentro il paradigma che fu quello dell’Italia della Prima repubblica, del sistema dei partiti dove la lotta al fascismo era essenzialmente lotta di liberazione nazionale, mentre il fascismo era inteso come “Antiitalia” e il suo superamento come annullamento di una parentesi. Un codice interpretativo che giustamente oggi è considerato inadeguato.
4) Auschwitz è venuto essenzialmente identificandosi con il genocidio ebraico e questo è venuto a riassumere l’intero complesso del sistema concentrazionario nazista. Questo risultato rende problematica la presenza del Memoriale ad Auschwitz anche perché espressione di un paradigma interpretativo che non tiene conto di questo dato, se non marginalmente, ritraducendolo, impropriamente, all’interno del paradigma antifascista.
5) Nella condizione attuale mi sembra che il conflitto tra le memorie delle diverse deportazioni non sia risolvibile e dunque che non sia sanabile quella sintesi instabile, frutto di un compromesso costruito con fatica e con lentezza, e anche con malesseri, nel corso degli anni ’70 che ha condotto al Memoriale. La conseguenza di quel conflitto, ci tornerò in sede conclusiva, è la definizione di memorie separate, non comunicanti, ostili, forse persino nemiche.
6) La collocazione del Memoriale altrove, per esempio in un luogo che rappresenti il percorso italiano della deportazione, non può essere solo la preoccupazione di chi si fa carico della memoria della deportazione politica. Quell’esperienza è un segmento fondamentale e costituente dell’Italia contemporanea e accantonarla o dichiararla competenza e preoccupazione di un’organizzazione di privati come se questi avessero un loro contenzioso personale con quella storia, è inaccettabile per chiunque si pensi erede e fruitore di quella ritrovata libertà per la quale molti lottarono, subirono violenza e caddero.
7) Più puntualmente ciò implica affrontare e riflettere su tre diverse questioni: i) Così come la memoria della deportazione ebraica italiana è un problema collettivo della coscienza italiana, e non solo degli ebrei, lo stesso è per la deportazione politica. E non solo. Questo stesso principio vale anche per le molte altre esperienze di deportazione su cui solo con enorme ritardo si è costruito un discorso pubblico. ii) Al centro della costruzione di una coscienza pubblica sul sistema concentrazionario devono riprendere spazio i molti luoghi delle sofferenze del Novecento degli italiani, ma anche si potrebbe aggiungere, quelli in cui avvennero sofferenze che noi italiani abbiamo inferto ad altri nel corso del Novecento e su cui finora ha regnato sovrano il silenzio. iii) La necessità di avviare una riflessione sulla deportazione come “storia di vita”. Un ambito su cui noi in Italia abbiamo un deficit e che ha trovato cittadinanza nella ricostruzione dell’esperienza ebraica e della deportazione razziale, ma che riguarda tutti i tipi di deportazione. L’esperienza della deportazione, infatti, non riguarda solo che cosa avvenne in un luogo, ma ciò che precedette e ciò che seguì, i sistemi di relazione, i conflitti tra persone, e i ritorni.
Per concludere. Nell’attuale condizione, sia per come si è sviluppato il confronto – forse più propriamente si dovrebbe dire lo scontro – sia per l’inadeguatezza del discorso storico che sottende il Memoriale, lo spostamento altrove del Memoriale se non accompagnato da una riflessione che produca una nuova sintesi culturale rischia di presentarsi come la sconfitta della memoria della deportazione politica. È quel discorso storico che va cambiato. In quel discorso storico, una parte importante, anche se non unica, spetta alla ricostruzione di un’idea di esperienza della deportazione che abbia chiara e inequivocabile la coscienza di un atlante dei luoghi di sofferenza, che furono molti, diversi, destinati per individui classificati come distinti, ma che è comprensibile solo se letta in ogni sua parte. In altre parole, l’universo concentrazionario è una somma di luoghi e la storia di quell’esperienza è comprensibile solo a patto di avere una visione complessa, articolata, ma unificata di quella macchina.
Quella storia noi la ereditiamo “a parte intera”, ovvero non possiamo né selezionare né scegliere. La questione del luogo di memoria, forse più correttamente di vari luoghi di memoria (musei, memoriali, la cui creazione è risultato di scelte, strategie, selezioni) che abbiano ciascuno una relazione alle diverse memorie dei luoghi (ovvero i luoghi fisici e materiali dove l’esperienza della deportazione si è consumata), è conseguente alla consapevolezza di doversi fare carico di questa esperienza plurale, di individuarne le caratteristiche proprie di ciascuna, ma di non sceglierne una per tutte. Diversamente il risultato sarà quello di una guerra tra memorie, in cui ovviamente qualcuno vince e altri perdono. Un’eventualità che rappresenterebbe una “vittoria di Pirro”.
Evitare questo epilogo e costruire una nuova sintesi è un compito che spetta a molti attori: agli eredi di quelle storie, a un insieme di figure professionali (tra cui anche gli storici) infine alle figure pubbliche. Tutti costoro devono avere chiara la percezione della delicatezza di un confronto che deve essere arricchimento e costruzione di una memoria condivisa. Impresa non indifferente in un paese attraversato da fratture profonde. Tuttavia, solo quel percorso consentirà di trovare una collocazione più consona che non sia un ripiegamento, ma una rivalorizzazione.