A metà giugno, un paio di settimane prima di lasciare il Pentagono, il ministro della Difesa Robert Gates ha partecipato alla seduta della Commissione per le spese militari del Congresso, e si è tolto alcuni sassolini dalle scarpe. In tempi di crisi, le spese del Pentagono sono sotto attacco e alcuni parlamentari gli hanno chiesto perché mai gli americani non addossino agli alleati europei un peso maggiore delle spese Nato, specie ora, con l’organizzazione atlantica impegnata in Libia.
Gates, di solito timido e misurato, è stato sprezzante: «Quasi tutti gli alleati hanno votato per la missione in Libia, ma meno della metà ha aderito alla missione, e meno di un terzo ha partecipato alle azioni militari». Ha aggiunto: «La più potente alleanza nella storia del mondo, impegnata contro un regime male armato, è rimasta senza munizioni dopo 11 settimane». Sono dovuti intervenire gli Stati Uniti per i rifornimenti. E stiamo parlando della Libia, a poche centinaia di chilometri dall’Europa.
L’impegno di Afghanistan? Gates ha definito «uno scherzo» («a joke») l’impegno finanziario degli europei per addestrare i militari afghani: «350 milioni di dollari, contro il miliardo investito dagli americani». Nel 2001 – ha concluso – gli Stati Uniti si facevano carico del 50 per cento delle spese Nato, ora sono al 75%. La ragione è semplice: la crisi economica spinge i paesi europei a tagliare le spese militari. Tutta l’Europa spende nel settore circa 300 miliardi di dollari, meno di metà metà degli Stati Uniti, che si devono accollare l’ombrello militare del vecchio continente.
Alcuni opinionisti, dopo quella seduta, hanno scritto che con i soldi risparmiati nel settore militare, grazie alla protezione Usa, i paesi europei pagano la sanità gratis per tutti, un lusso che gli americani non possono permettersi.
A questo punto sorge spontanea una domanda: perché gli Stati Uniti non tagliano le spese militari? La risposta è semplice: ci stanno provando in tutti i modi, ma si tratta di una missione impossibile. Vediamo perché. Fino a qualche anno, negli Stati Uniti, fa chiunque mettesse le spese del Pentagono sul banco degli accusati sarebbe stato trattato come un traditore della patria. Oggi non più così. Il vento è cambiato. Il colossale deficit del paese (ormai vicino al 100% rispetto al Pil) ha spinto persino molti conservatori a chiedere robusti tagli al budget militare. Nel 2011 le spese del Pentagono (comprese le due guerre in Afghanistan e in Iraq) hanno superato i 710 miliardi di dollari, il 67% in più (in termini reali) rispetto al 2001. Si tratta del 46% delle spese militari del mondo (segue la Cina con il 7,3%).
Il piano dell’amministrazione Obama prevede che nel 2015 il budget scenda a 670 miliardi, nell’ipotesi (tutta da dimostrare) che le spese a Kabul e Baghdad si riducano di circa 100 miliardi e non si aprano altri fronti di conflitto. Da mesi persino all’interno del partito repubblicano è in atto una guerra fratricida sul futuro del Pentagono. A gennaio un drappello di 23 influenti conservatori ha fatto circolare una lettera (sotto l’ombrello della ATR , Americans For Tax Reforms) sostenendo la necessità di tagliare senza scrupoli il budget militare: «Il Pentagono ha uno status protetto grazie al quale ha sempre evitato seri controlli sulle spese», hanno scritto. La lettera era firmata da noti intellettuali di alcuni think tank conservatori (in prima fila il Cato Institute e l’American Conservative Union), giornalisti di testate come l’American Spectator, alcuni libertarians (Freedom Works) ma soprattutto esponenti dei Tea Party. Tutti uniti nel criticare l’impegno in Afghanistan, Iraq e Libia, chiedere una riduzione dell’impegno in Europa, invocare un nuovo isolazionismo.
Ma tagliare è difficile. Il presidente Dwight Eisenhower sapeva quello che diceva quando parlava di «complesso militare-industriale». La lobby legata al Pentagono ha tentacoli ovunque. La Military Coalition è una rete di 33 organizzazioni che conta complessivamente cinque milioni e mezzo di iscritti e costituisce un gruppo di pressione potentissimo. Per attrarre i giovani nell’esercito il governo garantisce da decenni privilegi di ogni genere: stipendi più alti rispetto al resto dell’amministrazione pubblica, forti sconti sul cibo acquistato negli spacci militari, sanità gratuita, college e università free (un benefit che i militari possono passare a mogli e figli), possibilità di andare in pensione anticipata e così via. I costi per la sanità dei militari sono saliti da 17 a 49 miliardi dal 2001 a oggi e rappresentano ormai il 10 per cento delle spese del Pentagono (guerre escluse). Obama sta cercando di tagliare queste voci ormai fuori controllo (addossandone una parte agli stessi militari) ma si scontra contro un muro invalicabile.
E poi c’è la lobby industriale. Solo nel 2010 il Pentagono ha distribuito 366 miliardi in contratti ad aziende americane. Secondo Congress.org, circa la metà di questa cifra è stata attribuita «senza adeguata competizione», in pratica per trattativa privata. La rete di interessi e connivenze che nasce da queste decennali abitudini ha impedito a qualunque amministrazione di mettere il naso negli affari militari. «Abbiamo le mani legate: gli Stati Uniti sono come una grande nave il cui il comandante può cambiare la rotta al massimo di un grado», ha detto recentemente al Financial Times Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza alla Casa Bianca ai tempi del presidente Carter.
L’anno scorso, quando Robert Gates ha chiesto ai diversi servizi del Pentagono di presentargli un elenco di tagli per 100 miliardi, ha dovuto promettere di dirottare quei fondi su progetti migliori. Così ha cancellato (o ridotto) progetti come il Future Combat System, il caccia F-22 Stealth, due sistemi per la difesa antimissile; si è spinto a proporre la chiusura del Joint Forces Command in Virginia e la riduzione in tre anni del 10% del budget dei lavoratori a contratto. Ma in alternativa ha proposto un nuovo bombardiere atomico capace di raggiungere le coste della Cina, radar di ultima generazione per l’F-15, un lanciatore per spedire missili nello spazio e nuovi droni progettati per contrastare la crescita militare della Cina. Inoltre ha annunciato uno stanziamento di 185 miliardi di dollari in dieci anni per modernizzare l’arsenale di circa cinquemila bombe nucleari che il Pentagono conserva nei suoi depositi, un vecchio progetto che da anni divide la comunità scientifica.
Michael O’Hanlon, esperto militare del think democratico Brookings Institutions, ha proposto un taglio di 60 miliardi (circa il 10% del budget) entro il 2017, ma ha ammesso che si tratta di un’iniziativa molto rischiosa. Con un budget così risicato, gli Stati Uniti non potranno essere presenti in forza in più di una campagna bellica per volta. Può l’America rinunciare al suo ruolo di superpotenza? E soprattutto, è auspicabile?
D’altra parte non è solo una questione di supremazia militare. È opinione diffusa che un taglio del 10-15% sugli investimenti militari eroderebbe la leadership tecnologica degli Usa. Decine di università e di centri di eccellenza che ricevono ogni anno miliardi di dollari per ricerche di frontiera sottoscrivono questi timori. Può sembrare strano ma Pentagono, per molti , vuol dire libertà di ricerca.
L’osservazione più acuta è stata fatta da Loren Thompson, intellettuale del Lexington Institute, un think-tank di Washington: nel 2000 l’economia Usa valeva un terzo dell’economia mondiale, e le spese militari del paese erano un terzo delle spese militari mondiali, un perfetto equilibrio. Ma oggi l’economia Usa si è ridotta a un quarto di quella mondiale, mentre le spese militari sono salite al 46%. È chiaro che c’è qualcosa che non funziona. Ma è difficile fermare la deriva innescata negli anni di George Bush. Leon Panetta, il nuovo ministro della Difesa che già ai tempi di Bill Clinton fu apprezzato per le sue doti di tagliatore di budget, proverà a rimettere in equilibrio il sistema. Ma nessuno sa come.