Noi donne col velo non ci sentiamo meno italiane

Noi donne col velo non ci sentiamo meno italiane

C’è Ebla Ahmed, 32 anni, avvocato inglese nata a Firenze da un padre yemenita. Porta jeans stretti e magliette attillate ma si dichiara una conservatrice. E guai a toccarle la fede nell’islam. Imane Barmaki invece ha un cognome persiano, un nome arabo, geograficamente è marocchina, culturalmente italiana e storicamente francofona. In Italia è arrivata quando aveva 13 anni. È laureata in Economia e ha un motto: «Quando a causa degli anni non potrai correre, cammina veloce. Quando non potrai camminare veloce, cammina. Quando non potrai camminare, usa il bastone. Però non trattenerti mai!». Ci sono Bahija Monssif, Afef Hagi, Meriem Faten Dhouib, Ouissal Mejri nata nel 1980, dottore di ricerca presso l’Università di Bologna e anche Ouejdane Mejri, docente di informatica al Politecnico di Milano e presidente dell’Associazione Pontes. Sono tutte italiane di origini tunisine. Con loro lavora Fatima Khachi, marocchina, Maha Yakoub, palestinese trapiantata a Livorno, Sissy Ghlay, Randa Ghazy e Rania Ibahim, egiziane, poi Sabika Shah Povia, pakistana laureata a Londra, Noor Gamyla, Layla Joudè nata a Trento da madre italiana e padre siriano e infine Loubna Ammoune.

È lei la più giovane, l’autrice di Yalla Italia, il blog delle seconde generazioni, che in arabo significa Forza Italia ma che non c’entra con Silvio Berlusconi. Tedesco-siriana, è nata a Segrate, è araba e porta l’hijab ma non è una “sottomessa”. Non lo sono nemmeno le sue altre sedici colleghe. In molti, online, le consigliano di levare il velo, “per diventare moderna, per non avere grane”.

Ma lei non ci sta. «Sarebbe toppo facile – dice – Senza velo nessuno più porrebbe domande sul nostro sentirci integrate, pur essendo nella maggior parte dei casi nate e/o comunque cresciute qui in Italia. Per chi decide di portarlo come scelta non sarebbe forse un doppio peccato? Da una parte calpesteremmo un diritto sacrosanto di espressione e di libertà di scelta, dall’altra rinnegheremmo una parte di noi che sentiamo». Ed è questo, in sintesi, lo scopo di Yalla: “s-velarci” dai pregiudizi senza levare il velo reale o immaginario che le caratterizza. Ma anche smentire le dicerie che si raccontano in giro sul conto delle seconde generazioni, filtrare la realtà italiana e interpretarla. Smontare gli stereotipi, combattere le generalizzazioni. Ironizzare su sé stesse, come donne, giovani, musulmane, laiche, cristiane. Insomma, raccontare, raccontarsi. Non da italiani, da arabi o da eurocentrici: semplicemente come nuovi cittadini che appartengono contemporaneamente a due mondi e che si divertono a coglierne gli aspetti più interessanti, contraddittori, ambigui, problematici e perché no provocatori.

Non a caso la redazione di Yalla, a pochi passi dalla moschea di via Quaranta a Milano, dedica una sezione del suo portale allo sfogo di chi ce l’ha con qualcuno. Prendiamo Noor, nata nel 1985 e laureata in Cooperazione e Sviluppo internazionale alla Columbia University. «Incomincio – si legge sul blog – ad avere l’allergia degli accademici, degli analisti, dei professori universitari e dei giornalisti che alle conferenze e sui media non fanno altro che ripetere quanto i giovani arabi siano bravi, moderni e compatibili con la democrazia perché twittano e sanno smaneggiare con i social network. Vi sentite per caso in colpa per aver sottovalutato le potenzialità della gioventù araba? […] Quando scrivete che le rivoluzioni tunisine ed egiziane sono avvenute solo grazie ai cyber fighetti della nuova classe media araba è come se diceste che questi giovani laici, aperti mentalmente, che si fanno addirittura gli spinelli dopo un narghilé, che amano la libertà, […] condividono anche gli stessi valori euro-americani perché, come gli occidentali, usano twitter e facebook». Invece no. Si può usare Facebook e rimanere arabi. Twittare non significa essere occidentali, anche se il social network più famoso del mondo è stato inventato dai nerd della Silicon Valley, in America.

Yalla serve a questo. A dare voce a quei giovani di cui tutti parlano ma che nessuno riesce a definire: nuovi italiani, generazioni 1.5, figli di immigrati? «Tutte espressioni lente, lentissime, che non colgono la dinamicità e la rapidità con cui la società italiana sta cambiando, i mille volti che ne rappresentano il carburante silenzioso, il paese reale». Serve a spiegare che sì, si può conciliare la tradizione e la cultura delle comunità di origine con i processi di modernizzazione delle società occidentali.

«Per me – spiega Loubna – è normale essere un’italiana musulmana, una ragazza europea di origini mediorientali. Il conciliare più culture mi è stato trasmesso. Leggere Dante o leggere Ibn Arabi mi trasmette emozioni diverse ma con intensità uguale. Parlo arabo e italiano, sogno e prego in entrambe le lingue. E questo è un esempio che posso estendere a tutte le dimensioni della mia vita. La cultura è la base, se la fai tua. In questo caso sono più culture che con la componente della personalità individuale, delineano una nuova identità».

Insomma, le ragazze di Yalla sono pronte a spiegare vita, morte e miracoli del pezzo di stoffa che portano sulla testa, sono pronte a confrontarsi, sono aperte alle critiche. Ma come riscontro «ci aspettiamo che si arrivi a questa realtà: portare il velo non rende meno italiane, come decidere di non portarlo non rende meno musulmane». Se non ora, quando?