Alla radice della crisi del debito pubblico in Europa sta una mancata unione fiscale. Molti seri osservatori lo sostengono da tempo: l’unione monetaria non può funzionare in mancanza di una unione fiscale, cioè di uno stretto coordinamento delle politiche fiscali.
L’argomento è il seguente. Consideriamo due (gruppi di) paesi all’interno di una unione monetaria (quindi con una singola valuta) che operino politiche fiscali divergenti. Tali politiche non sono sostenibili senza un eventuale deprezzamento della valuta di quei paesi che operino politiche relativamente più espansive. Un deprezzamento infatti permette ai paesi in crisi di bilancio di ripagare il debito con una valuta svalutata, cioè di ripagarlo solo in parte. Ma poiché in una unione monetaria l’esistenza di una singola valuta impedisce ogni forma di svalutazione competitiva, risulta necessario che le politiche fiscali dei paesi nella stessa unione monetaria siano coordinate e quindi convergenti.
Questa posizione, e una qualche variante di questo argomento, sono comuni nel dibattito economico in Europa. Senza provare minimamente una rassegna esaustiva, valga citare alcuni editoriali di questi ultimissimi giorni: Lucrezia Reichlin, Mario Deaglio, Marta Dassù, Adriana Cerretelli, ed altri ancora. Con venature diverse una unione fiscale per l’Europa è stata proposta in passato da Mario Monti (che però recentemente si è limitato a favorire una politica finanziaria comune, attraverso l’emissione di Eurobonds), Paul De Grauwe, Wolfgang Munchau e Peter Mandelson, l’ex Commissiario dell’Unione Europea sul commercio estero (che addirittura propende per una unione politica).
L’argomento appare convincente ma lo è solo in apparenza. Provo a spiegarmi. Lo faccio in 3 punti:
1. Una unione fiscale non è affatto necessaria (né fondamentale), anche in presenza di una unione monetaria. Innanzitutto, una svalutazione non è che un default parziale: implica ripagare il debito con una valuta svalutata. Se una unione monetaria impedisce la svalutazione di un paese dell’unione, non impedisce certo un default parziale. Infatti, questo è quello che sta succedendo alla Grecia. L’instabilità finanziaria di questi giorni ci dice quindi che sarebbe opportuno definire meccanismi per meglio controllare default parziali, ed evitare così lo spettacolo e l’incertezza associate a riunioni politiche di emergenza dei ministri del Tesoro dei paesi dell’unione monetaria, invece che non di rilanciare con una unione fiscale.
Inoltre, è proprio la la mancanza di un chiaro ed esplicito meccanismo di controllo di default parziali ad essere alla radice della divergenza delle politiche fiscali tra i paesi dell’Europa. Da una parte infatti, i mercati hanno assunto che l’Unione europea avrebbe garantito il debito dei paesi membri, finanziandoli a spread quasi nulli per anni, fino alle incertezze della politica recente. Dall’altra parte, gli stati hanno sfruttato i bassi spread per finanziare nuovo debito o evitare di ridurre quello esistente (ovviamente alcuni stati, quelli con sistemi politici più inefficienti, più di altri). In queste condizioni i parametri di Maastricht, il cui obiettivo era di limitare ex-ante la divergenza delle politiche fiscali tra stati membri, non potevano che essere disattesi, perché nessun meccanismo di default era in piedi per rendere gli stati divergenti responsabili di fronte ai propri elettori delle proprie politiche fiscali.
2. Una unione fiscale non è nemmeno sufficiente (né fondamentale), a garantire la convergenza delle politiche fiscali dei paesi membri.
Una unione fiscale prevede necessariamente meccanismi di sussidiarietà, che trasferiscano risorse dai paesi membri più ricchi a quelli più poveri. Questi meccanismi tendono a generare dipendenza (dei poveri dai ricchi) e inibiscono la convergenza nei tassi di crescita e anche nei tassi di spesa pubblica. Basti guardare all’Italia, che è una unione fiscale (e monetaria) ma le cui regioni, in mancanza di un meccanismo che le renda responsabili davanti agli elettori, hanno mantenuto per decenni e continuano a mantenere tassi di crescita e spesa pubblica molto divergenti.
3. Una unione fiscale limita invece l’efficienza della finanza pubblica.
Innanzitutto una unione fiscale, trasferendo le decisioni di finanza pubblica al centro dell’unione, riduce la responsabilità rispetto agli elettori dei centri di spesa locale, rendendoli più inefficienti. Inoltre, la competizione fiscale tra stati membri opera a favore di efficienza e responsabilità, come la competizione tra imprese: se anche la mobilità dei cittadini fosse limitata (ma non lo è – i cervelli di ogni tipo si muovono liberamente), le imprese tendono a scegliere paesi con sistemi fiscali favorevoli, imponendo agli altri una riduzione di tasse e di inefficienze di spesa che le tasse finanziano. In altre parole, è il federalismo fiscale, piuttosto che l’unione, a garantire maggiore responsabilità ed efficienza.
In conclusione, non si può non avvertire disagio nei confronti di una classe politica europea che ad ogni disfatta rilancia e raddoppia: non funziona l’unione monetaria? Aggiungiamo l’unione fiscale! Non funzionasse quella? Porte aperte ad una unione politica! Prima di rilanciare con una unione fiscale occorre invece meglio definire gli equilibri istituzionali dell’unione monetaria, perché essa possa reggere ex-post e disincentivare ex-ante politiche fiscali irresponsabili come quelle di Grecia e anche di Portogallo, Spagna, e Italia.