Ottone (Otto) d’Absburgo-Lorena
(20 Novembre 1912 – 4 Luglio 2011)
La grafia «Absburgo» (da Hapsburg, lontana origine svizzera di quella famiglia) è vecchio stile, ma è la più esatta. Cittadino d’Europa, di quasi 99 anni, residente in Baviera – dove è morto in tutta naturalezza – e con quattro passaporti: tedesco, austriaco, magiaro, croato. Cittadino austriaco (dal 1966, una volta superati una legge e un bando senza senso, del 1919) fra i più internazionali del suo Paese d’origine, e dell’ultimo mezzo secolo, insieme all’ex cancelliere socialista Bruno Kreisky, morto nel 1990. Come Kreisky del 1911, anche Otto avrebbe potuto definirsi «un austriaco in mezzo ai tempi». Che, fra i suoi titoli dinastici, aveva anche quello, antico, di «Duca di Auschwitz e di Zator».
Quei tempi hanno coinciso con un bivio storico (il passaggio drammatico dall’Impero agli Stati nazionali, e nazionalisti, ex austro-ungarici), diventato trivio con Hitler vittorioso, e, in Austria, festosamente accolto dopo l’Anschluss del 1938. Otto era un antinazista congenito con in più questi caratteri: un esiliato sparso (Madera nelle Azzorre, Svizzera, Belgio, Francia), un pluriglotta e un cattolico spontaneo, un principe imperiale senza trono ma dentro la maestà dei suoi diritti-doveri, un uomo intelligente e con la passione politica (come «un oppio di cui non si può fare a meno», avrebbe detto), un pretendente attivo ma senza rimpianto («Non so neppure che cosa sia questa nostalgia di cui si parla così spesso»). E un Absburgo che, come quasi tutti gli Absburgo dell’ultimo secolo, sentiva una particolare affinità con gli ebrei.
In un’intervista del 1986 – al Nouvel Observateur – sarebbe stato molto chiaro: «Esistevano dei legami profondi tra la dinastia e gli israeliti. Tra questo Impero sovranazionale e una diaspora anch’essa sovranazionale, per cui si perveniva a una comprensione, direi addirittura a un appoggio logico. In Israele esiste oggi un’associazione creata in memoria di Francesco Giuseppe, e raggruppa circa diecimila persone».
Aveva anche incontrato Freud, a casa della principessa Eugenia di Grecia: «Io non sono freudiano, ma Freud impressionava molto. Mi è apparso come disilluso. Lo ritengo uno degli uomini più traditi fra quelli da me conosciuti. La sua dottrina è stata talmente deformata…».
Con questo retroterra, agli occhi di Hitler, Otto era un nemico strutturale, archetipico e pericoloso, era il passato prossimo di Vienna ex mondiale, «la città dell’incesto», come il dittatore la chiamava.
Il passaggio all’estremo, in Portogallo – ottenuto grazie a un visto del coraggioso console Aristides de Sousa Mendes – e la vita da emigrato/esiliato europeo a Washington, non avrebbero stinto il discernimento del principe anche dentro quella condizione forzata: «Nel mondo dell’emigrazione, si ritrovano figure eccezionali, ma anche riprovevoli. Diventando emigrato, ciascuno raggiunge il livello che merita».
Il suo livello, più che impegnato e morale – da politico in avanti – era pronto per il secondo tempo della sua vita. Quello del ritorno nell’Europa liberata, e della ricostruzione, con tutti gli aggiornamenti necessari. Già molto vecchio, Otto restava fermo su un principio: «Quando morirò, gli Absburgo continueranno a lavorare». L’aggiornamento unitario-europeo dell’erede imperial-regio, e di quella visione sovranazionale, sarebbero stati un lavoro e un ideale. O un cammino «in mezzo ai tempi»: il dopoguerra, la caduta del Muro, la post-Jugoslavia.
Bruno Kreisky, che si era formato sull’analisi dialettica della celebre scuola austro marxista, aveva un’idea scientifica della fisionomia imperiale austro-ungarica: «Un meccanismo di tesi e di antitesi: la tesi era il miscuglio, l’antitesi la resistenza culturale. Un crogiolo e una sfida. Perché, in una situazione come quella, la gente, i singoli come i diversi popoli, si sforzava di non scomparire come gruppo culturale. Soprattutto attraverso la conservazione delle rispettive lingue. Ma anche attraverso la musica “nazionale”: ceca, ungherese, di Vienna, e così via». Otto d’Absburgo, che certo non era austromarxista, e per di più era un devoto cattolico, seguiva nel fondo quello stesso filo d’analisi (una specie di Dna concettuale), trasferito sull’unità europea e sulla sua necessità: la tesi era l’Europa mista come «comunità culturale e spirituale» (e con l’economia ridimensionata a un pari grado col resto), la garanzia era la difesa e la sopravvivenza delle minoranze. Più adatta ai suoi tempi, quella «garanzia» sostituiva l’antitesi della compagine imperial-regia. O ne era, appunto, una derivazione naturale. O democratica.
Il tutto, senza nostalgia, come ha sempre insistito Otto. Un laureato in Scienze politiche e sociali (a Lovanio) che, fra l’altro, sarebbe diventato parlamentare a Strasburgo – per la Csu bavarese, dal 1979 al 1999 –, e patrocinatore (dopo il disfacimento jugoslavo) di una federazione di Stati danubiani. In pratica, la Mitteleuropa dentro l’Europa. C’è da immaginare che se lui avesse regnato, o fosse stato presidente di qualcosa nei Balcani, sulla piana ungherese, o lungo il Danubio, avremmo meno bisogno oggi della Corte internazionale dell’Aja o di stare in guardia su quello che succede a Budapest. E si può dire che con lui, ultimo sepolto di diritto nella Cripta dei Cappuccini, quella Cripta è diventata anche un luogo del futuro.
Cy Twombly
(25 Aprile 1928 – 5 Luglio 2011)
Pittore e scultore americano, di Lexington, Virginia. Alla fine di ogni suo lavoro, e di quella fatica, doveva, in genere, «stare a letto per almeno due giorni». Un virginiano alto e massiccio, ma soprattutto un poeta grande. Dal 1957 viveva in Italia, fra Roma e Gaeta: si trasferiva in Europa nel tempo in cui l’arte contemporanea, anche europea, si spostava in America. Per rimanerci, soprattutto a New York. È morto a Roma, a 83 anni, per un tumore.
Come fanno i poeti veri, si è fatto un baffo, costantemente, dei critici che non lo coglievano e in generale di tutti quelli che lo hanno guardato, soprattutto agli inizi inoltrati, come un “poeta” inclassificabile. Fra le righe, come un artista minore, o sfuggito all’arte vera, e contemporanea. O come il “terzo uomo” di un insieme di suoi amici-artisti più celebri e ritenuti più innovatori di lui. Che si chiamavano Jaspers Johns e Robert Rauschenberg. Ha tracciato linee sfuggenti e sfuocate che potevano diventare parole, e versi, in matita, sulla tela e sulla carta. O ha macchiato le sue tele, o ha creato pannelli monocromi.
Nell’unico scritto su se stesso, del 1957, non ha spiegato niente ma si è fatto direttamente “sentire”: «Ogni linea che traccio coincide con l’esperienza di tracciare quella linea». L’esperienza, e il suo istante, cioè la vita, in una delle sue milionesime espressioni, visibile ex abrupto. Si è fatto un altro baffo della pubblicità e di un certo tasso di impopolarità, perché con questa spontanea indifferenza, si assicurava la privacy. In se stessa e per meglio lavorare. Riassumeva così: «I had my freedom, and that’s nice». Quando era nell’esercito, alla fine degli anni Quaranta, si esercitava nella crittografia: svelare dei codici o farli. Ha usato direttamente i grandi della poesia, i loro versi e le loro figure: Omero, Catullo, Mallarmé, Rilke, Pound. Sulla tela, o sulla carta, le loro parole o erano in sé un’opera, o la evocavano.
Una delle sue opere più celebri – oggi stabile al Philadelphia Museum of Fine Arts – si chiama Fifty Days at Iliam. Dove «Iliam» sta per Ilium (cioè il nome latino, in inglese, della città di Troia) e quella a sostituita alla u è un omaggio, o una memoria poetica, dell’eroe Achille. Con gli anni Ottanta, e l’avanzare trionfante (anche sul mercato) del graffitismo, si dileguava l’altezzosità nei confronti nei confronti di Cy Twombly, anche se i suoi non erano, nella sostanza, graffiti, ma scritture. In senso lato, esperienze poetiche tracciate. Ancora in quel periodo, per una sua retrospettiva americana, i curatori sentivano il bisogno di accompagnare l’esposizione con una newsletter che aveva questo titolo: Your Kid Could Not Do This and Other Reflections on Cy Twombly. Oggi, la Menil Collection di Houston progettata da Renzo Piano contiene in permanenza la collezione più vasta al mondo delle sue opere.
Cy Twombly si chiamava, all’origine, Edwin Parker Twombly jr. Si era sintetizzato in Cy Twombly (un suono, in sé, lirico e immediato) per ricordare il campione lanciatore di baseball Cy Young, e quella specialità sportiva che era la stessa di suo padre, Edwin Parker Twombly sr., lanciatore dei Chicago White Sox.
Humberto Leal Garcia Jr.
(16 Gennaio 1973 – 7 Luglio 2011)
Cittadino messicano, nato a Monterrey, e trasferito in Texas da quando aveva due anni. Condannato a morte per omicidio di primo grado e sequestro da una Corte di Houston nel 1994, è stato ucciso con un’iniezione letale nel carcere di Huntsville.
Aveva oltre 38 anni e ne aveva passati quasi 17 in carcere, costituendo anche un caso di non considerazione, da parte della giustizia americana, delle convenzioni internazionali. E di un intervento diretto, e senza precedenti (e anche senza risultato, purtroppo) in favore del condannato. Da parte dell’amministrazione, cioè del presidente Barack Obama. Da ricordare, in questa storia di ingiustizia, come un “giusto” che ha cercato di difendere tre cose non proprio irrilevanti: i diritti dell’uomo, il rispetto delle leggi, e delle sentenze, transnazionali; i rapporti degli Stati Uniti col mondo. Affiancato, in questo, dall’opinione minoritaria di quattro giudici democratici della Corte Suprema: Ruth Bader Ginsburg, Stephen Breyer, Elena Kagan, Sonia Sotomayor.
L’infanzia di Humberto Leal Garcia jr. Uno delle migliaia dei bambini messicani di quel confine che con la famiglia passano in territorio texano, e che ci crescono, senza riuscire a ottenere la cittadinanza americana (che, comunque, in questo caso, non avrebbe cambiato l’esito). Durante il processo sarebbe stato riconosciuto «brain damaged», anche perché un prete l’aveva violentato, da piccolo.
Il fatto, e l’imputazione. Il 21 maggio 1994, a San Antonio, Humberto e una banda di amici, dopo un party, avevano sequestrato, torturato e ucciso Adria Sauceda, una ragazza di 16 anni. Mentre gli altri erano riusciti a scomparire, Humberto veniva arrestato, si dichiarava, solo lui colpevole, e senza dire subito di essere cittadino del Messico. D’altra parte, la polizia ometteva di informarlo che sarebbe stato suo diritto rivolgersi, per il patrocinio legale, al consolato del suo Paese. Pur essendo stato parte di un gruppo, il fatto di confessare in prima persona il delitto lo aveva immediatamente, e gravemente, danneggiato. Un avvocato difensore decente (o “consolare”) lo avrebbe consigliato di astenersi da quella affrettata dichiarazione, ma il legale d’ufficio del tribunale aveva accettato tout court quell’autocondanna verbale. La corte emetteva velocemente la sentenza di morte, oltre a tutto senza tener conto di un esame del Dna, tutt’altro che risolutivo nell’accertare la violenza sessuale sulla ragazza.
Gli appelli e il caso internazionale. Il punto centrale, nelle fasi di appello, stava nella negazione di un diritto e di un’informazione, che Humberto aveva subito da parte della polizia e della giustizia del Texas. Secondo la Convenzione di Vienna, i detenuti, e gli imputati fuori dal loro Paese, hanno diritto di mettersi subito in contatto con le proprie autorità consolari. E questa disposizione (col valore di una norma ope legis internazionale) veniva ratificata da una sentenza specifica della Corte di Giustizia dell’Aja, nel 2004. Dove, fra l’altro, si citavano i casi di 50 cittadini messicani già condannati a morte in territorio americano e a cui non venivano riconosciuti quei diritti di assistenza stabiliti dalla Convenzione. In aggiunta, quattro anni dopo, nel 2008, la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva affermato il carattere vincolante di quella sentenza dell’Aja.
L’intervento di Barack Obama. Analizzato il caso, e le ripercussioni sugli eventuali trattamenti processuali dei cittadini americani all’estero (oltre all’immagine del Paese, e alle relazioni col Messico) il presidente e l’amministrazione facevano ricorso contro la condanna. Pochi giorni prima della sua esecuzione, e chiedendo esplicitamente il rispetto della sentenza della Corte di Giustizia. L’ultima parola (o messa ai voti) passava alla Corte Suprema, la stessa che aveva riconosciuto il «vincolo» di quella stessa sentenza. La morte, o meglio l’omicidio di Stato, di Humberto Leal Garcia jr., cittadino estero privato dei suoi diritti, passava con 5 voti (dei giudici “conservatori”) contro 4, e sulla base di un’argomentazione giuridicamente biforcuta, oltre che letale. Si sosteneva, in maggioranza di un voto, che tutte le disposizioni della Convenzione di Vienna non erano mai state ratificate con una legge federale discussa e approvate dal Congresso. E che la Corte Suprema «non poteva impedire a uno Stato dell’Unione di applicare le sue leggi». In concreto si poteva ammazzare un uomo alla faccia di sentenze e disposizioni già dichiarate «vincolanti», ma su cui il potere legislativo – in senso lato, politico – aveva mancato di legiferare. In più si sputtanava, sempre a maggioranza di un voto, l’intervento senza precedenti del presidente democratico degli Stati Uniti.
Ma tutto questo era probabilmente molto lontano da Humberto, poco prima che lo facessero sdraiare. Ha chiesto scusa alla famiglia della vittima, e ha detto, all’estremo: «Que viva Mexico!».
L’immagine di questa settimana: «While they were gone», foto artistica della statunitense Brooke Shaden.