Giorgio Galli, docente di storia delle dottrine politiche all’Università degli Studi di Milano, ha scritto – nei primi anni Novanta – due volumi sulla Dc e sulla storia del Pci Italiano. Si occupa, da sempre, di analizzare i movimenti e le formazioni politiche. Chiediamo a lui una riflessione sull’attuale situazione politica che sta affrontando il nostro paese.
Professore, perché, a distanza di vent’anni, si parla di una nuova Tangentopoli?
«Perché i partiti di governo e di opposizione risentono del fatto che la commistione tra politica e affari è divenuta sempre più stringente. È, appunto, la stessa affezione che colpì la Prima Repubblica e a cui la classe di amministratori della cosa pubblica non ha mai posto rimedio. Ecco perché ci sembra di essere tornati, rispetto ad allora, al punto di partenza. La nostra democrazia rappresentativa è sempre più fragile. In nessun altro paese occidentale evoluto vi è il radicamento della criminalità organizzata che vive l’Italia. La classe politica nazionale, rispetto agli anni di Mani Pulite, non ha subito un vero rinnovamento. Anche se i grandi partiti ideologizzati sono tramontati, come la Dc e il Pci, il personale politico si è riciclato. E la politica, al di là delle ideologizzazioni, la fanno le persone. Pensiamo alla Lega, ad esempio: all’epoca di Tangentopoli recriminava ai partiti gli errori che ha commesso anche lei dopo. Quando ha voluto “le banche”, ha perso la verginità e anche il desiderio di riformare il vecchio sistema, lo stesso che accusava. Ma lo scopo di un buon amministratore non è quello di fare affari. Oggi la Lega rimane il più vecchio grande partito italiano. Il pd è più giovane e il pdl attraversa una profonda crisi.»
Perché non si è presentata una nuova classe di amministratori, sullo scenario politico nazionale?
«Perché il personale politico è selezionato per cooptazione, per ragioni che esulano dalla meritocrazia. Pensi alla legge elettorale. Finché sopravvive l’ossificazione del sistema politico, le nuove energie e risorse, che pure ci sono, non possono esprimersi e operare».
In queste ore assistiamo alle notizie sull’indagine della magistratura contro l’ex sindaco di Sesto Filippo Penati, accusato di corruzione e concussione: anche se è presto per dare un giudizio di merito, che ne pensa? «Che è il segnale della stessa malattia cui accennavo prima. La collusione tra classe politica e affari è trasversale e attraversa tutti i partiti. Le sigle politiche cambiano, ma il sistema in cui si muovono è lo stesso e anche i meccanismi che avviano».
È un’analisi pessimistica che non lascia spiragli?
«Tutt’altro. La società italiana è vivace e in grado di esprimere personalità brillanti, se si supera l’ostruzionismo dei partiti. Guardi alle ultime amministrative. De Magistris e Pisapia hanno vinto perché sono espressione dei comitati, della società, di forze nuove, fresche, che si muovono fuori dal perimetro partitico. Anche i referendum sono figli dello stesso fenomeno. L’Udc era a favore del nucleare, e il Pd si è mostrato incerto nella posizione da assumere sulla privatizzazione dell’acqua. La gente aveva, invece, idee assai più precise e determinate».
Come se ne esce?
«C’è una sola soluzione per sprigionare il buono che l’Italia vede crescere, nonostante la classe di governo. Rinnovare la classe politica, completamente. Non è anti-politica. È precisamente il contrario. Berlusconi è entrato in politica anche per garantire i suoi affari come ha in qualche modo ammesso anche Fedele Confalonieri».
Vede qualche figura carismatica da cui si possa ripartire?
«Nichi Vendola riprende le tradizioni della sinistra e può dare un contributo sul movimento. Accanto ai comitati, però. In quanto al sindaco di Firenze Matteo Renzi, non so: mi sembra inconsueto che sia andato a discutere di affari relativi al comune che amministra nell’abitazione privata del premier. E non mi è piaciuta la sua battuta che paragonava gli impiegati pubblici a Fantozzi».
Su Tremonti molti avevano puntato come figura politica di transizione che avrebbe potuto sostituire il Cavaliere nel ruolo di presidente del consiglio…
«Analizziamo la sua complicata evoluzione politica: da ultra-liberista a colbertista e interventista. È certamente un professionista competente, anche se è un tributarista e non mi pare un grande lume dell’economia. Basta vedere le misure improvvisate sulla manovra finanziaria appena approvata. Tutta questa storia è cominciata con il disastro di Alitalia».
E di Mario Monti? Alcuni lo accreditano come possibile premier…
«Parlano di lui come se fosse il salvatore della patria. Rispetto all’immobilismo nazionale generalizzato non è una cattiva soluzione. Il problema è però un altro. Le democrazie rappresentative occidentali non controllano i poteri economici. Vi sono cinquecento multinazionali, nel mondo, i cui cda controllano le sorti del pianeta. I partiti diventano comitati d’affari manipolati dai centri economici. Se non si afferra il problema che le grandi multinazionali hanno in mano la politica, non si esce dall’impasse. È un problema di fondo. I governi possono poco. Non so se Monti veda la questione in questo modo. Guardi la crisi finanziaria. La linea politica, in Italia, è stata quella di pensare prima a come fare per salvare le banche. In tutta la storia italiana la tendenza, nei momenti di profonda crisi, è quella di ricorrere ai governatori delle Banche d’Italia. Pensiamo a De Gasperi con Einaudi. Poi a Ciampi e a Dini. Vogliamo un’uscita morbida dal berlusconismo? Questa è la via».
Qualcuno dice che rimpiangeremo Berlusconi. Che ne pensa?
«No, penso che non lo rimpiangeremo affatto. Come, in fondo, non rimpiangiamo la Democrazia Cristiana che si è sbriciolata con la Prima Repubblica. Pensi alla storia di Bisignani. Arriva da quel passato lì, dall’andreottismo».