Negli Stati Uniti t’inchiodano per lo spinello fumato al college trent’anni prima. Appena assumi un ruolo pubblico salta sempre fuori un cronista pignolo che si mette a rovistare nel cestino, finchè non trova un po’ di spazzatura da mettere sul giornale. Nel paese del “bunga bunga” non siamo per fortuna cosi puritani ma almeno il cambio di idee, il salto della quaglia intellettuale, bisognerebbe coltivarlo in modo più misurato, soprattutto spiegarlo pubblicamente quando sei un ministro della Repubblica. Anzi, “il più potente ministro dell’economia che si ricordi” (copyright di Guido Rossi). Invece in Italia l’empirismo anglosassone, abituato a procedere per prove e congetture (e quindi correzioni), tende a tradursi in “camaleontismo”. Nel Belpaese tutto si arrotonda, si è perennemente affogati in un eterno e provvisorio presente, e nessuno ti chiede mai conto di nulla, delle tue posizioni di ieri e dell’altro ieri. Giulio Tremonti lo sa, conosce e interpreta il suo paese come pochi, e così ci sguazza. Il nodo vero, lo diciamo subito, non sono le sue idee, figurarsi (delle volte condivisibili altre meno, come per tutti), ma la velocità con cui le cambia.
Quel che segue è un brogliaccio del Tremonti uno e bino di questi ultimi anni sui grandi temi nell’agenda del paese e del mondo. Partendo dall’ultimissima giravolta: il revisionismo sul capitalismo di stato, quella voglia matta di Partecipazioni Statali rivelata sabato mattina a Cernobbio al workshop Ambrosetti: “In questo momento, guardando a come sta cambiando il mondo, per il sistema italiano sarebbe meglio avere la grande Iri e la vecchia Mediobanca. La concorrenza, i rapporti economici, non sono più per campi nazionali, sono ormai tra blocchi di sistema, da continenti, non a caso la Germania è l’unico paese – continua Tremonti – che riesce a parlare da gigante a giganti quali la Cina. Per noi, invece, è più difficile, avendo una quota minore di dimensione di grandi imprese…” Eppure è lo stesso ministro, allora commentatore del Corriere della Sera, che il 27 dicembre 1993, alla vigilia della discesa in campo di Silvio Berlusconi, scriveva sul giornale di via Solferino, in un fondo titolato “La maledizione della Repubblica”, che “dallo Stato al parastato, dagli enti locali a quelli previdenziali e assistenziali, ovunque c’è cosa pubblica, c’è debito pubblico. Ed è inutile farsi illusioni: se lo stato dell’economia è cattivo, l’economia dello Stato va in modo ancora più negativo…”. I suoi sono fondi netti, senza peli sulla lingua, figli di una cultura anti-statalista vigorosa.
La più compiuta esposizione tremontiana della teoria del ‘ceto medio’ vessato si trova in realtà nel fascicolo di luglio-agosto 1998 del bimestrale Ideazione. Qui Tremonti definisce il blocco dei produttori “l’insieme di medi e piccoli imprenditori, artigiani, commercianti, professionisti di vecchio e nuovo tipo, più i loro dipendenti.” Ad esso si contrappone “il blocco statalista”, che “contiene lo Stato, la grande industria, il sindacato, le relative burocrazie funzionali ed intellettuali.” Per il ministro esiste una evidente antinomia tra l’“enorme dimensione sociale” del ceto medio, la “funzione economica” che svolge e la sua “debolezza politica”. Mentre “il lavoro dipendente dispone di un apparato di rappresentanza forte e attrezzato”; quello indipendente “non dispone di alcun apparato di tutela”. Sarebbe, quindi, l’ora di dotare “quel popolo, ormai maggioritario nel Paese”, di “una vera e propria coscienza di classe”, “di una vera e propria consapevolezza di ruolo sociale”. Due anni dopo, sulle basi di questo individualismo proprietario, si salderà la nuova alleanza Bossi-Berlusconi che riporta il centrodestra al governo del paese, con il ‘pedemontano’ Tremonti deus ex machina del patto di ferro. Per questo stupisce la virata statalista, in verità coltivata passo a passo fino alla chiusura del cerchio di sabato, lasciando di sale i tanti leghisti e pidiellini del Nord, il nutrito blocco del capitalismo diffuso padano che per anni si è abbeverato alle teorie del super ministro, ideologo del forza-leghismo e delle partite Iva. Prima i libri contro la globalizzazione, poi il colbertismo, poi ancora gli attacchi alle borse, ai banchieri (“sono i nuovi Bankster”), agli accademici (“silete economisti”), e il flirt con papa Ratzinger e la sua enciclica Caritas in Veritate. “Avete voluto le privatizzazioni? Avete voluto il libero mercato? Avete voluto spacchettare l’Enel? Visti i risultati in bolletta? Fantastici. Avete voluto privatizzare Telecom? E le autostrade? Vi do l’indirizzo, rivolgetevi agli ingegneri dell’industria e della finanza…”
Un’altra parola stracciata dal nuovo Tremonti è sicuramente “protezionismo”. “Il protezionismo è deleterio non solo per le economie, ma soprattutto per le società. Vuol dire opposizione dura, contrasti forti e alla fine una catena di ripicche infinita”, diceva ancora nel febbraio 2009, davanti alle telecamere di Class Cnbc. “Il protezionismo? Fa tornare l’Europa di Kaiser e Zar” (Il Messaggero, 26 febbraio 2002). Certo la crisi cambia i paradigmi, scompagina vecchie certezze, impone il realismo sull’astrattezza della teoria economica. Contro il dumping cinese, delle volte i dazi servono eccome. Ma il neoprotezionismo tremontiano sembra davvero un’altra cosa. “L’Italia – ha detto sempre da Cernobbio – presenterà in sede Ue un disegno di legge a tutela delle imprese considerate di interesse nazionale in lingua francese e identico alla norma vigore in Francia. Lo presenteremo per un parere. In questo modo se va bene il nostro…, se invece non va bene, simul stabunt, simul cadent.”
Anche sulla Cassa Depositi e Prestiti la versione di Tremonti cambia nel tempo come le stagioni di Picasso. In questi ultimi giorni è convinto possa entrare nel capitale delle imprese private e, forse, delle banche. Nell’ambito del decreto anti-scalate e quindi nell’ambito del caso Parmalat, Cdp potrà dare vita ad “un fondo aperto ai privati, identico anche questo al fondo strategico francese”, spiega il ministro. “Quindi se la Danone è del fondo strategico francese, non vedo cosa ci sia di strano se…” Il 21 settembre 2006 la pensava diversamente. Sempre sul Corsera, rispondendo a Francesco Giavazzi, Tremonti scrive che “nel mio disegno originario (non sviluppato per eventi impeditivi sopravvenuti a fare data dal luglio 2004), la strategia per la Cassa era di spostare assets (incluse le Poste) verso il privato e non all’opposto di spostare assets verso il pubblico…”
Altra virata plateale è quella sull’Europa. La sua è stata per anni una visione gelosamente intergovernativa, da Europa minima: la sovranità ancorata agli stati nazione senza farla salire al federalismo comunitario. Erano gli anni del Tremonti critico verso “la tempistica troppo stretta dell’allargamento Ue”, verso “alcuni elementi del patto di stabilità” e verso “il modo in cui viene applicato l’euro”. Il 25 agosto 2002, intervistato da Aldo Cazzullo per la Stampa, Tremonti non lascia spazio ad equivoci: “Dal punto di vista di chi sostiene il modello unionista – Unione di Stati e metodo intergovernativo – mettere con le spalle al muro la Conferenza intergovernativa sarebbe inaccettabile e grave. Aggiungo, tanto più grave se il modello da prendere o lasciare non fosse il modello unionista, ma un modello federalista, per di più confusionario.” Quel che resta in gola al ministro è esattamente “la tendenza non verso l’Unione di Stati nazione, ma verso la creazione di uno Stato unico. Bruxelles come Washington. Parigi come provincia. L’incorporazione della Carta di Nizza con funzione di dichiarazione dei diritti, prevalente sulla parte di principio delle Costituzioni nazionali. Questo significa: tutte le decisioni prese a maggioranza; totale azzeramento della sovranità
dei singoli Stati…”.
Insomma sono le idee limpidamente esposte di un pezzo di destra italiana e della Lega nord, culturalmente euroscettiche. Niente di male, non fosse che oggi di quella lettura non rimanga più nulla. A settembre 2010, sempre da Cernobbio, Tremonti arriva ad invocare nientemeno che il motto americano “E pluribus unum (un continente, un mercato, una moneta) perché vanno superate le politiche national oriented”, sorpassando Romano Prodi in europeismo. Finalmente, dopo la crisi, è il nuovo Tremonti pensiero, “l’Europa si sta dando un’ architettura istituzionale (Bce con più poteri, fondo Ue, bilancio comune e patto di stabilità e di crescita)” In questo modo “l’Ecofin diventa la piattaforma su cui scrivere i documenti fondamentali, dando finalmente forma all’ectoplasma di Lisbona…”
Lo ripetiamo. Qui non si discute la necessità di giocare alla pari le guerre di mercato, difendendo quel che resta della nostra argenteria, o di pretendere reciprocità dai francesi, bensì la leggerezza con cui Giulio Tremonti cambia posizione senza la benché minima spiegazione. Entra ed esce dalle proprie idee come fosse una porta girevole di hotel. Il ministro infatti è recidivo. In 15 anni è stato tutto e il contrario di tutto.
Prima tributarista tra i più gettonati dalle imprese italiane, superconsulente della Repubblica di San Marino (noto paradiso fiscale) non senza ironie dell’allora governatore di Bankitalia, Antonio Fazio, nel corso di una audizione parlamentare sulle vicende della Popolare di Lodi – “Cosa so delle operazioni estere della banca? Avete come ministro il più grande esperto italiano di paradisi fiscali, rivolgetevi a lui…” – poi fustigatore seriale dei paradisi off shore, definiti “moderne caverne di Ali Babà” da smontare, “perché è inutile fare finta di contrastare l’evasione fiscale, quando si lasciano aperti i paradisi.” Prima censore impietoso dei condoni fiscali utilizzati da vari governi della Prima Repubblica, perché “immorali”: in Sudamerica, scrive il futuro ministro sul Corsera del 25 settembre 1991, “il condono fiscale si fa dopo il golpe. In Italia lo si fa prima delle elezioni, ma mutando i fattori il prodotto non cambia: il condono è comunque una forma di prelievo fuorilegge.” Poi, una volta al governo, volenteroso utilizzatore di sanatorie e scudi fiscali per il rientro dei capitali dall’estero. Un provvedimento varato anche in altri paesi ma mai con aliquote così generose (il 5% nella versione 2009) e senza dare al contribuente furbo la garanzia dell’anonimato.
E ancora. Testimonial della “rivoluzione liberale” berlusconiana, autore di un pamphlet di successo come “Lo Stato criminogeno”, cacciato da via XX Settembre (estate 2004) “perché volevo tagliare le tasse e non me l’hanno lasciato fare…”, l’uomo che più di tutti ha incarnato l’antistatalismo padano contro la sinistra di Visco è diventato prima critico del free trade, giocando di sponda con il localismo leghista, poi no global di destra che difende Dio-Patria e famiglia e vuol tassare le transazioni finanziarie, infine negli ultimi mesi addirittura “spacciatore” di sfottò contro chi vorrebbe tagliare le imposte a dispetto dei conti: “La sapete vero la storia di quel signore che entra al bar e offre da bere a tutti ma poi, al momento di pagare, dice fate voi…”, ha ironizzato dal palco del meeting di Cl (agosto 2010), in un furore intellettuale che lo porta a distruggere qualsiasi posizione precedente.
Una di queste è la tesi sulla dimensionalità delle nostre imprese e la tenuta del sistema Italia. Per anni ha difeso il piccolo capitalismo di territorio contro chi, da sinistra e dall’accademia, si lamentava della scarsa taglia delle Pmi tricolore. E’ stato il primo a riconoscere il ruolo dei distretti industriali nell’azione di un governo italiano. Ancora a inizio crisi ha magnificato il modello del calabrone italico: la crisi “c’è, siamo ancora in terra incognita.” Ma la realtà italiana “non è quella che ci dicono i numeri. Dobbiamo capirla bene per governare l’uscita dalla crisi.” E per farlo “occorre considerare il popolo della partite Iva, gli 8,5 milioni di lavoratori autonomi che costituiscono l’enorme differenziale con gli altri paesi”, gongola Tremonti il 10 giugno 2009 intervenendo a Siena all’apertura dei lavori del 21° congresso dell’Acri, l’associazione tra le fondazioni e le casse di risparmio. E’ questo giacimento produttivo la vera forza del paese rispetto al resto d’Europa. “Dove c’è la grande industria c’è l’indennità di disoccupazione, dove c’è il lavoro autonomo, la situazione è diversa.”
Per molti mesi, nel lungo inverno recessivo, questa è la via standard contro chi chiede una scossa all’economia. Parlare di riforme è tabù, “ne va della coesione sociale”, è la risposta piccata. Qualche settimana prima, il 27 aprile 2009, al palazzo dell’Edison a Milano, si presenta il libro di Marco Fortis, La crisi mondiale e l’Italia. “Abbiamo elementi di forza che vengono fuori con la crisi”, esordisce tra gli applausi Tremonti. “Ci sono 100 distretti industriali che non cambierei con i 50 campioni nazionali francesi, 4,5 milioni di imprese dinamiche, e una struttura assistenziale forte e stabile, perché è la geografia che fa la politica”, chiosa evocando Montesquieu. “In questo il ruolo sociale della famiglia è decisivo”. Insieme ad un welfare diffuso, “spesso informale ma prezioso, dalle pensioni sociali a quelle di invalidità. E’ inutile intervenire con radicalità.” Un elogio alla tenuta del Paese che sconfina nell’autoassoluzione del carattere nazionale. Poi, la svolta. Al meeting di Rimini 2010 è il solito Tremonti uno e bino a brandire l’agenda delle riforme, adesso che lo dice lui si può anzi si deve. All’improvviso la piccola taglia delle nostre “baionette” non è più una virtù. “Dobbiamo discutere senza fatalismi i punti deboli del sistema Italia”, ragiona compunto. “Oggi la Germania parla da gigante a gigante con la Cina, invece il 90% del nostro Pil lo fanno imprese con meno di 100 addetti e non basta affidarsi solo al made in Italy. Abbiamo perso massa critica, e questo ci spiazza…”
Un reverse simile lo ha fatto sul mercato del lavoro, contro il leader Cgil Sergio Cofferati, correva l’anno 2001. Il palcoscenico è sempre quello agostano di Rimini. “Le strutture giuridiche del lavoro devono cambiare perché sono mutate quelle economiche. La pretesa di conservarle invariate è una prerogativa dei reazionari. E Cofferati è l’archetipo del nuovo reazionario”, attacca Tremonti. La battaglia sull’articolo 18 è alle porte. “Il modello e il metodo” ai quali farà riferimento l’azione di governo saranno quelli che “hanno portato al recepimento della direttiva europea sui contratti a termine.” Senza il consenso della Cgil. In un fondo sul Corriere del 24 ottobre 1993 aveva già scritto che “l’idea del lavoro dipendente come termine necessario di riferimento rivela la rigidità di un pregiudizio che è tipico della cultura italiana: il lavoro o è dipendente o non è. Chi non è dipendente, non è un lavoratore pur se autonomo, ma un deviante….” Passano un po’ di anni, cambia il ciclo economico, arriva la crisi e una mattina di primo autunno milanese, 19 ottobre 2009, sala colonne della Bpm dell’amico Ponzellini, eccoti la rovesciata plateale: il posto fisso? “E’ la base sulla quale costruire un progetto di vita e la famiglia, in quanto la mobilità lavorativa, l’incertezza e la mutabilità non è un valore di per sé.” Anche sul Meridione il valtellinese Tremonti, socio di Umberto Bossi, sciatore in Cadore e appassionato di canti alpini, ha cambiato più volte idea. Qualche esempio? Il 3 luglio 2010 fa scoppiare un polverone dando dei “cialtroni” ai governatori del sud, incapaci di spendere i fondi europei. “Ieri ho incontrato il commissario europeo per i Fondi Regionali”, racconta all’assemblea della Coldiretti. “Lo stanziamento sul programma comunitario 2007-2013 era di 44 miliardi di euro. Questi signori ne hanno speso solo 3,6, un dodicesimo. E’ una cosa di una gravità inaccettabile. La colpa non è dell’Europa non è dei governi nazionali di destra o di sinistra, ma della cialtronaggine di chi ha i soldi e non li spende. Nei prossimi anni non si può continuare con questa gente che sa solo protestare…” Eppure è lo stesso ministro dell’Economia che pochi mesi prima si era trasformato in perfetto e sofisticato meridionalista rilasciando al Foglio del 4 novembre 2009 una dotta analisi sul mezzogiorno da risarcire per i disastri causati dall’unificazione. Giusto qualche estratto: “l’unità fatta non con il rispetto delle realtà sul territorio, ma con le baionette non è stata del tutto positiva (…) manca forse ancora un bilancio storico”. “Una grande capitale europea come Napoli si è trasformata, da un giorno all’altro in una prefettura sabauda (…) Napoli era una metropoli in cui si concentravano relazioni industriali e internazionali. Aveva la ferrovia più sofisticata d’Italia, una flotta meccanizzata, un’industria meccanica di precisione, un’industria tessile (…) L’unificazione ha distrutto una quota enorme di capitale umano. (…) Quanto capitale è stato annichilito e distrutto? Che impatto ha avuto l’unificazione sulla borghesia napoletana?” “Il costo dell’unificazione in realtà è stato addossato per una grossa quota al Sud. Noi abbiamo un debito nei confronti del Meridione…”
Dopo il sud è la volta del nucleare. La platea sono i giovani rampanti di Confcommercio riuniti sul Canal Grande a Venezia. Tremonti va giù piatto sponsorizzando il ritorno all’atomo: “le economie con cui compete l’Italia hanno tutte il nucleare […] il nostro Paese importa tutta l’energia, e la importa pagando prezzi estremamente elevati. Il che significa meno spese più Pil.” “Dopo il disastro in Giappone occorre una pausa di riflessione”, si auto smentisce qualche mese dopo (19 marzo 2011) da Cernobbio, un’altra volta al forum di Confcommercio, questa volta dei grandi, non dei giovani. Allontanando la costruzione di nuove centrali nucleari, dopo le tante promesse. Anche se la svolta più curiosa è forse quella sui derivati, il vero satana tremontiano, denunciato da qualche anno come la vera serpe in seno al sistema capitalista. Una delle filippiche più appassionate è quella del 22 giugno 2010, alla Biblioteca ambrosiana di Milano: “Imporre limiti al capitale delle banche, ridurre l’uso eccessivo della leva finanziaria, utilizzare la tassazione degli istituti di credito per evitare nuove crisi sono norme importanti, necessarie, ma non sufficienti per scongiurare un collasso del sistema: ciò che manca all’appello è la regola delle regole, quella fondamentale che riguarda i derivati. Negli ultimi anni, infatti – spiega Tremonti – a causa di una globalizzazione fuori dalle regole, il numero delle operazioni finanziarie è diventato un fenomeno esponenziale…”
Tutto bene, peccato che sia stato proprio lui, con la finanziaria 2002, a concedere agli enti locali la possibilità di ricorrere a strumenti derivati per finanziarsi. Una cosa vietata persino nella turbo liberista Inghilterra. Sul sito del ministero dell’Interno si legge ancora una spiegazione firmata Stefano Daccò, direttore Centrale della Finanza Locale, datata 26 gennaio 2002. Il titolo del memo è “Una finanziaria per la stabilità” in cui si spiegano le nuove regole d’ingaggio per gli enti locali. Quanto alla nuova disciplina degli investimenti, “l’accesso al mercato è coordinato dal Ministero dell’economia e delle finanze. Quindi gli enti devono comunicare al Ministero interessato i dati sulla situazione finanziaria e con decreto dello stesso Ministero sono approvate le norme relative all’ammortamento del debito ed all’utilizzo degli strumenti finanziari derivati.” In particolare “gli enti possono emettere titoli obbligazionari contrarre mutui con rimborso del capitale in unica soluzione alla scadenza previa costituzione di un fondo per l’ammortamento del debito o conclusione di swap per lo stesso fine. E’ consentita anche la ‘conversione’ dei mutui contratti successivamente al 31 dicembre 1996.” Certo a quel tempo il turbo liberismo è vivo e vegeto e raccoglie consensi planetari, al pari la crisi finanziaria e la bomba derivati per i comuni italiani (esposti per 35 miliardi), è ancora di là da venire. Ma certe cose restano agli atti e bisognerebbe raccontarli. Invece Tremonti è talmente egemone da permettersi tutto e il contrario di tutto. Capace di autosospendersi dalle faide di una maggioranza ai materassi come non fosse il ministro più potente di questo governo. E capace di sdoppiarsi come quella volta che andò al comizio finale di Roberto Cota (primavera 2010) e strappò l’applauso degli amici leghisti: “noi siamo gente semplice, non abbiamo tempo di leggere libri…”.
Lui così sofisticato, professore a Pavia, intellettuale di casa all’Aspen Institute, collezionista di libri antichi e di lezioni sulla crisi da Pechino a Friburgo ampiamente riportate non senza narcisismi sul sito del ministero. Insieme alle citazioni di Marx, il richiamo all’austerità berlingueriana, le interviste a Repubblica, il duetto con Fausto Bertinotti sul comunismo e l’endorsement di un (ex) arcinemico come Guido Rossi. Abbiamo preso a caso un articolo tremontiano, sempre dal Corriere della Sera, datato 29 maggio 2006. Quella volta il ministro prende carta e penna per fare le pulci all’intervista rilasciata dall’allora titolare degli Esteri, Massimo D’Alema, alla Frankfurter Allgemeine Zeitung. Caro direttore, scrive Tremonti, “quando Schmitt pensava al potere non pensava alla globalizzazione. Ma al Terzo Reich. Quando non pensava più al Terzo Reich, non pensava più al potere, ma a scenari diversi, tra terra, mare e spazio. Che Schmitt esprima o che da Schmitt derivi una ‘idea di governare la globalizzazione con il potere’ costituisce dunque un inedito filosofico assoluto. Quando Kant pensava ad una ‘storia universale dal punto di vista cosmopolitico’ (1784), l’idea dominante era quella della natura e della sua progressiva evoluzione. Con la ‘modernità’ propria del tempo presente abbiamo radicalmente superato questo impianto di base. Pare dunque difficile utilizzare (come fa D’Alema, ndr) ora le categorie di Kant per fare il ‘governo della globalizzazione’. Per essere più flessibili, una citazione, una interpretazione evolutiva di Kant, si può sempre fare. Ma nell’insieme, il pacchetto delle citazioni ministeriali a presa rapida di cui sopra, ricorda la tenera figura intellettuale del ‘begriffo’ crociano…” In effetti. Parlano così anche nei bar di Varese.
(prima pubblicazione, 5 aprile 2011)