Fino a pochi anni fa gli investitori stranieri lo consideravano il prossimo miracolo asiatico: un Paese giovane, dinamico, con un irrisorio costo della manodopera. Il potenziale per decollare c’è ancora, eppure di recente il Vietnam ha provocato più grattacapi che eccitazione. L’economia continua a crescere; ma un’inflazione galoppante, colossi statali sull’orlo della bancarotta e un sistema bancario opaco, la carenza di infrastrutture e un disavanzo cronico nella bilancia commerciale rendono il Paese un’eccezione nell’Asia che si è lasciata alle spalle la crisi mondiale del 2008.
Il Partito comunista al potere, dopo un rimpasto di facciata lo scorso gennaio, ha intrapreso una serie di misure per stabilizzare l’economia. Nella prima metà del 2011, la priorità della crescita ad ogni costo ha lasciato progressivamente spazio a una politica monetaria restrittiva, che sembra aver tamponato la fase più critica. Ma per risolvere i problemi a monte serviranno scelte politiche coraggiose, che al momento non si intravedono.
Il Vietnam presenta i classici problemi di un’economia che è stata lasciata correre incontrollata troppo a lungo. La pioggia di investimenti stranieri in un Paese di 85 milioni di abitanti di cui il 60 per cento sotto i 35 anni, abituato a una crescita del Pil del 7-8 per cento, aveva dato alla testa. Le rigide aziende statali si sono allargate a dismisura, grazie all’ampio credito garantito dalle banche: su tutte il caso della Vinashin, che il primo ministro Nguyen Tan Dung intendeva far diventare un colosso della cantieristica navale. Miliardi di dollari sono stati spesi in modo inefficiente. E quando la recessione mondiale ha iniziato a mordere, i buchi in bilancio si sono ampliati. Lo scorso dicembre la Vinashin è stata lasciata insolvente su una prima tranche del debito da 600 milioni di dollari verso la Credit Suisse. Lo Stato sembra volersi defilare, ma i creditori che contavano sulla sua garanzia a questo punto si chiedono cosa succederà con gli altri debiti.
Grazie al secondo costo del lavoro più basso in Asia (la metà di quello cinese), il Vietnam è diventato un Paese che assembla prodotti stranieri ma producendo poco valore aggiunto; è considerato tra le prime scelte per le aziende che vogliono spostare la loro produzione (come in parte hanno già fatto la Canon e la Sanyo) da una Cina dove il costo del personale è in forte ascesa, anche se in confronto al suo ingombrante vicino il Vietnam offre una manodopera meno specializzata. Le esportazioni continuano a crescere, ma così anche le importazioni di macchinari e di tutto quello che fa viaggiare l’industria nazionale, nonché di prodotti finiti per una domanda interna sospinta (il 64 per cento del Pil va in consumi). La bilancia commerciale è in eterno deficit, e ciò ha assottigliato le riserve straniere fino a 13,5 miliardi di dollari: abbastanza per coprire un mese e mezzo di importazioni.
Per mesi, il divario tra il cambio dollaro-dong ufficiale e quello al mercato nero ha continuato ad aumentare. Finché le autorità, iniziando a tappare le falle, hanno iniziato a muoversi: a febbraio, di colpo la moneta è stata svalutata del 7 per cento, la quarta riduzione decisa dall’alto nel giro di 15 mesi. Una contemporanea politica di restrizione del credito non è però riuscita finora a contenere l’inflazione, che in maggio ha raggiunto il 19,8 per cento. Il governo ha appena rivisto gli obiettivi di crescita per l’anno in corso, facendoli scendere al 6 per cento; punta inoltre a contenere l’aumento del costo della vita entro il 15 per cento.
Gli effetti sulla popolazione iniziano però a farsi sentire, tanto che si segnala un’impennata negli scioperi: se ne sono contati 336 da gennaio ad aprile, un andamento che promette di superare il record di 762 scioperi nell’intero 2008, l’anno dell’inizio della crisi. E la macchina industriale continua a soffrire le strozzature date dalla mancanza di infrastrutture, ad esempio i cronici black-out: si calcola che, per soddisfare la domanda, il Paese dovrà portare la sua capacità generativa dagli attuali 16 gigawatt a 39 entro il 2020. Ma al momento il costo dell’elettricità, grazie agli ampi sussidi e nonostante un’impennata del 15 per cento decisa a marzo, è il più basso nel Sud-est asiatico. Il dilemma per il governo è che dovrebbe alzare i prezzi per attirare investitori e alimentare così la crescita del Paese, ma ha le mani legate dall’inflazione.
E’ solo una delle scelte da fare, ma simboleggia l’incertezza regnante. Nell’attesa di capire chi pagherà per gli errori commessi, gli investitori stanno alla finestra: nei primi cinque mesi del 2011 gli investimenti stranieri si sono dimezzati. La piccola e scarsamente liquida Borsa di Ho Chi Minh City riflette la situazione: dal picco di 1.170 del marzo 2007, l’indice è ora arenato poco sopra quota 400 e si è perso tutta la ripresa asiatica degli ultimi due anni. Ma lo spazio per svilupparsi c’è, e il recente investimento della Piaggio – la più grande azienda italiana presente in Vietnam – dimostra che in molti sono disposti a puntarci: il gruppo di Pontedera si prepara a raddoppiare la superficie del suo stabilimento nel Paese, triplicando la produzione per il mercato asiatico.