Conviene affondare sin dal principio un bel tackle, come sapeva fare quel mastino irlandese di Roy Keane, per affrontare il tema che ha sconvolto l’opinione pubblica italiana in questa coda d’estate: lo sciopero dei calciatori. Gente viziata, che viene pagata oro per svolgere il lavoro più bello al mondo (sempre ammesso che lo sia), alla quale è riservata fama e che può contare su uno stuolo di ragazze sgambettate pronte ad attenderli nei locali più alla moda. Una volta sgombrato il campo dai luoghi comuni, si può procedere oltre.
I giocatori hanno deciso di incrociare le braccia – o le gambe, come meglio si preferisce – per questo fine settimana, a dispetto del calendario di Serie A 2011/2012 già pronto a celebrare l’inizio di una nuova stagione. E provocando un diffuso sussulto di vergogna e reprimenda. È un affronto allo sport, per molti, come se il calcio fosse ancora uno sport e non più semplicemente un gioco, affare ben diverso e per rendere chiara l’idea occorre un breve passaggio filologico.
Il termine sport deriva dall’antico francese desport, vale a dire riposarsi, staccare dai riti quotidiani per dedicare corpo e mente ad altro. Tipo ritrovarsi con amici e compagni di squadra per dedicarsi all’attività preferita. Il gioco, al contrario, è un insieme di interessi che gli stessi calciatori stanno semplicemente cercando di difendere in queste ore, così come stanno facendo molte altre categorie lavorative.
I due punti sui quali l’Associazione italiana calciatori si è impuntata sono il famoso contributo di solidarietà introdotto dalla manovra governativa per rimettere in sesto i conti finanziari dello Stato e gli allenamenti separati per i giocatori messi fuori rosa.
Il pensiero comune è che con i soldi che guadagnano (eppure non tutti i calciatori professionisti prendono lo stipendio degli Ibrahimovic o dei Totti), un obolo in più alle casse del fisco non farebbe alcuna differenza. Ragionamento sacrosanto, sempre ammesso che sia giusto che lo Stato infili le mani nelle tasche dei contribuenti per porre rimedio ai propri sprechi. Al di là del punto di vista prettamente politico e ideologico, i calciatori stanno operando come le altre categorie lavorative che trovano iniqua la manovra in questione e di conseguenza agisce per tutelare i propri privilegi e interessi. Ma, a quanto pare, il diritto di protesta non è uguale per tutti o, al meglio, è più uguale per alcuni e meno per altri.
Quanto al secondo nodo da sciogliere, essere tenuti lontani dal gruppo di colleghi sul posto di lavoro non fa piacere a nessuno. Per di più, al calciatore non solo non è permesso di scendere sul terreno di gioco per la partita, ma è anche vietato allenarsi con la squadra per tutta settimana. C’è da scommettere che se il povero malcapitato non portasse ai piedi un paio di scarpette con i tacchetti, i rappresentanti sindacali si recherebbero nell’ufficio del capo con una bella denuncia per mobbing.
Il nervo scoperto dell’indignazione pubblica sono gli stipendi che percepiscono i calciatori, inutile prodigarsi in altri dribbling. La maggioranza è convinta che siano troppo alti ed effettivamente è così, anche da una visuale pragmatica: ci sono giocatori che valgono di gran lunga molto meno degli assegni che le società garantiscono. Giovedì Pierpaolo Marino, oggi responsabile dell’area tecnica dell’Atalanta, ha dichiarato che il «sistema è estremamente sbilanciato in favore dei calciatori e dei loro stipendi che sono obiettivamente troppo alti». Ma ad assicurare tali cifre sono le stesse società e perciò, sempre per il consolidato gioco di interessi, al momento della contrattazione è logico che l’atleta tenti di ottenere il più possibile. Ed evidentemente i dirigenti tendono ad acconsentire.
Lo sciopero della Serie A non è altro che una contrattazione tra le parti, cosa che accade spesso nel mondo agonistico. In Spagna la Liga è ferma, mentre negli Stati Uniti la NBA, il campionato professionistico di basket – che in quanto a interessi è di gran lunga più voluminoso del calcio italiano – è ai blocchi di partenza perché società e cestisti non hanno raggiunto un accordo sul contratto collettivo. La NFL, la lega di football americano, ha da poco revocato il lockout annunciato la scorsa primavera per lo stesso motivo.
Comunque, sangue freddo: il calcio italiano è politica e quindi sopravvivrà a se stesso.
Leggi anche: