«Il Nord ha già tagliato e ora sarà quello più colpito»

«Il Nord ha già tagliato e ora sarà quello più colpito»

Paradossi della manovra: uno dei governi più “nordisti” della storia recente davanti all’emergenza della crisi ha partorito una manovra economica che andrà a colpire più di tutti proprio il Nord. Questo perché, spiega a Linkiesta Luca Ricolfi, sociologo e professore ordinario all’Università di Torino oltre che autore de Il Sacco del Nord, avendo il Settentrione «già contenuto gli sprechi, ha molte meno possibilità di adattamento alle nuove condizioni». Del resto «è una costante di questa crisi. Contrariamente a quel che – senza esibire una sola prova – si sente ripetere da quattro anni, i dati mostrano chiaramente che la crisi ha colpito di più i “forti” che i “deboli”. I detentori di azioni hanno perso molto di più dei detentori di Bot e conti correnti. I lavoratori autonomi hanno perso più posti di lavoro dei lavoratori dipendenti. Gli italiani hanno perso circa 1 milione di posti di lavoro, gli immigrati ne hanno conquistati mezzo milione. E la recessione ha colpito più al Nord che al Sud». 

Ma andiamo con ordine. Professor Ricolfi, che impatto avrà questa nuova manovra su una crescita economica già asfittica?

Penso che la manovra, complessivamente, avrà un (modesto) impatto recessivo, più per l’ulteriore blocco degli investimenti pubblici che per il prelievo sui cosiddetti “ricchi”. In effetti, sarebbe stato meglio agire sulle tasse con un dichiarato obiettivo di rilancio della crescita. Perché le tasse non sono tutte eguali. Esiste una robusta evidenza econometrica che mostra che la capacità delle tasse di deprimere la crescita non è uniforme: piccole imposte sul patrimonio hanno effetti minimi, mentre gli effetti più negativi sulla crescita li producono le imposte che gravano sui profitti, o direttamente (imposte sugli utili) o indirettamente (cuneo fiscale e contributivo). La misura più sintetica del fardello che grava sui produttori è il TTR (Total Tax Rate), che in nessun Paese avanzato è al livello dell’Italia, come mostrano questi dati Ocse.

Si noti che i Paesi considerati a più alta pressione fiscale, perché la loro pressione fiscale complessiva è effettivamente molto alta (tipicamente i paesi “socialdemocratici” del Nord, come Norvegia, Finlandia e Danimarca), hanno nondimeno un TTR 30 punti più basso di quello dell’Italia. Quindi è vero quel che dice la sinistra, e cioè che si può crescere anche con molte tasse, ma solo se il TTR non è a livelli mostruosi come da noi. È paradossale, ma una sinistra che opera in un Paese come l’Italia di oggi, dovrebbe battersi per dare respiro ai profitti, e per questa via permettere la creazione di nuovi posti di lavoro. Non si tratta di difendere i ricchi, ma di sostenere chi crea lavoro per tutti.

Le grandi manovre spesso ridisegnano una nuova società. Che idea c’è dietro questa varata dal governo? Si tratta solo di tagli o c’è sotto un’idea di Paese diversa?

C’è, a mio parere, un’idea di rassegnazione agli eventi. C’è l’idea che la crescita dipenda essenzialmente da condizioni esterne, mentre tutto quello che un governo può fare è garantire il pareggio di bilancio. Perché, con deficit zero, il rapporto debito/Pil si ridurrebbe automaticamente, anche con una crescita irrisoria.

Ma questa manovra contiene almeno qualche idea strategica di crescita economica?

Questa manovra finge di credere alle idee della sinistra liberale, idee che questa destra illiberale ha sempre respinto: e cioè che tutto quello che la politica può fare per la crescita siano liberalizzazioni e riforme a costo zero.

Quale dei patti (Nord-Sud, giovani-vecchi, ricchi-poveri) è messo più
a dura prova dalla manovra?

Forse il patto giovani-vecchi, perché scassando il welfare familiare nel giro di dieci anni i giovani si troveranno senza la comoda tutela delle famiglie. Per “tutela delle famiglie” intendo quel particolare e italianissimo limbo che dura una ventina d’anni (dai 15 ai 35), in cui ai giovani è consentito studiare con calma, lavoricchiare, divertirsi, usare le risorse familiari, indignarsi per la precarietà. 

Sempre riguardo alla crescita economica, la manovra colpirà allo stesso modo Nord e Sud?

Nominalmente penso di sì (sacrifici “uguali per tutti”) ma effettivamente no: il Nord, proprio perché ha già contenuto gli sprechi, ha molte meno possibilità di adattamento alle nuove condizioni. È quindi possibile che la sua crescita ne risenta più di quella del Sud, che già negli anni pre-crisi se la cavava meglio del Nord in termini di andamento del Pil pro-capite (controllare i dati 1995-2007 per credere). Del resto, è una costante di questa crisi. Contrariamente a quel che – senza esibire una sola prova – si sente ripetere da quattro anni, i dati mostrano chiaramente che la crisi ha colpito di più i “forti” che i “deboli”. I detentori di azioni hanno perso molto di più dei detentori di Bot e conti correnti. I lavoratori autonomi hanno perso più posti di lavoro dei lavoratori dipendenti. Gli italiani hanno perso circa 1 milione di posti di lavoro, gli immigrati ne hanno conquistati mezzo milione. E la recessione ha colpito più al Nord che al Sud.

Quanto incide sulla crescita economica e sulla produttività lavorare due o tre giorni in più (mi riferisco all’accorpamento delle festività)?

Può sembrare strano, o stupido, ma incide. Due giorni lavorativi su 200 fa l’1%. Anche ammettendo che l’aumento di prodotto sia meno che proporzionale all’aumento delle ore lavorate, abbiamo comunque qualche decimale di crescita del Pil in più.

Ma con questa manovra il federalismo fiscale è morto come ha detto Formigoni o no?

Sì, ma era già morto prima. La politica l’ha annacquato e dilazionato abbastanza da renderlo inutile. O meglio, non utile allo scopo principale per cui era stato pensato, ossia ridare un po’ di ossigeno ai ceti produttivi del Paese, concentrati nel centro-nord. Può anche darsi che il federalismo alla fine funzioni, e che vada a regime nei tempo previsti, ossia nel 2018. Ma per quella data, se non si fa null’altro per alleggerire la presione fiscale sui produttori, sarà troppo tardi. A quel punto, del federalismo si potrà dire: «L’intervento è perfettamente riuscito, ma il paziente (l’economia italiana) è morto».

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