Sono ormai passati trenta anni dalla prima missione all’estero delle Forze Armate italiane, quella Libano 1 del 1982 che per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale vide soldati italiani schierarsi in armi al di fuori dei confini nazionali. Trenta anni nel corso dei quali, in una escalation continua, l’Italia ha provveduto a fornire uomini e mezzi a missioni militari in vari paesi in crisi sotto diverse etichette (peace keeping, peace enforcing, nation building, etc.) e sotto diversi ombrelli politico/giuridici (Onu, Nato, Ue).
Siamo arrivati così al 2011, con circa 9250 uomini sparsi tra Afghanistan, Libano, Somalia (forza navale), Libia (forza navale), Kosovo, Iraq e una miriade di altre missioni che difficilmente ottengono l’onore delle cronache. Si tratta di uno sforzo economico enorme, secondo molti analisti nostrani sproporzionato rispetto alle risorse del paese, ma soprattutto il cui fine strategico appare molto poco chiaro. La vicenda libica, in particolare, ha messo a nudo molte delle incongruenze che minano i rapporti all’interno delle grandi alleanze di cui facciamo parte, finendo per sminuire l’impegno militare dei membri europei della Nato e forzandoci a ripensare il nostro impegno navale ed aeronautico in quell’area.
La sensazione purtroppo è che trenta anni di sforzi economici, di sacrifici da parte dei nostri soldati, di caduti in combattimento e di infinite polemiche sul fronte interno non siano serviti a chiarire i veri obiettivi del nostro interesse nazionale e della nostra “grande strategia”: chi siamo andati ad aiutare sostanzialmente non ci è grato, le aree del pianeta che si sperava di stabilizzare non sono stabilizzate, si vedono pochissimi ritorni politici o economici per l’Italia dai paesi dove siamo intervenuti. Né, soprattutto, l’Occidente in generale ha ricavato alcunché dall’invio di truppe su fronti lontani. Anzi, sembra piuttosto che gli unici ad averci guadagnato siano proprio coloro che alle missioni multinazionali non partecipano o partecipano tutt’al più in maniera pressoché simbolica.
Ci riferiamo in particolare alla Cina, per la quale abbiamo spianato la strada verso la colonizzazione di mercati che altrimenti sarebbero stati difficili da penetrare. Pechino, senza colpo ferire, raccoglie i frutti del sacrificio dei soldati occidentali caduti in Iraq o in Afghanistan, presentandosi come il gigante buono che non bombarda ma che offre a prezzi stracciati beni di consumo alla portata dei poveri portafogli degli afghani e degli africani, tanto che i traballanti governi di mezzo mondo guardano ormai alla Cina come partner commerciale in grado di garantire sviluppo e stabilità.
Mentre noi stiamo qui a discutere quanto Emergency sia o non sia una organizzazione degna di rispetto, il piano sanitario nazionale afghano viene discusso con il Primo Ministro indiano, tagliando fuori Ong da tutto il mondo o relegandole ad un ruolo accessorio e marginale rispetto al grande disegno auspicato il 19 maggio a Kabul dai vertici di governo afghano e indiano. L’amara constatazione così resta quella che rileva come le numerose missioni “di pace” abbiano sortito effetti assai poco entusiasmanti anche sul più immediato piano militare e umanitario, nonostante l’impiego di decine di migliaia di uomini e di tecnologie avanzatissime, tutte perfettamente inutili in conflitti asimmetrici. Inutile tornare a parlare delle missioni in Iraq o in Afghanistan, il cui fallimento sotto il profilo del nation building è fin troppo palese, basterebbe leggere la cronaca proveniente in questi giorni da Mitrovica in Kosovo per scoprire che nemmeno la presenza più che decennale della coalizione Nato in quella regione (dal 1999) è servita a sopire le tensioni tra le comunità serba e kosovara.
Presto, ci auguriamo, anche l’affaire libico arriverà al redde rationem, con l’auspicabile uscita di scena di Gheddafi e l’instaurazione di un governo di impronta liberale. Ma quanto sta accadendo in Libia in queste ore è l’ennesima conferma che chi decide oggi le missioni all’estero poco o nulla sa di strategia: siamo rotolati in quel conflitto interno al seguito della bellicosa Francia e spintonati dall’altrettanto pugnace Gran Bretagna, senza che nessuno capisse davvero chi stavamo andando ad aiutare e a che titolo. In questi giorni addirittura il leader militare della coalizione anti-Rais è stato ucciso in circostanze alquanto misteriose, il che come minimo conferma che di questo personaggio ci si è fidati a sproposito, pur sapendo che, in quanto ex ministro dell’Interno del Colonnello, non poteva essere estraneo alle brutali repressioni del dittatore, alle incarcerazioni dei dissidenti ed alle loro torture.
Nella migliore delle ipotesi abbiamo preso un abbaglio, abbiamo scambiato Younes per il portabandiera delle nuova e democratica Libia quando invece i suoi stessi uomini diffidavano di lui. Il futuro della Libia resta così ancora meno chiaro, e poco attendibili sono le stime sui futuri assetti di tutto il Nord Africa, lasciando nella nebbia Nato, Onu e Ue, incapaci di elaborare una strategia equilibrata a fronte degli ultimi sconvolgimenti, incluso quello siriano. Il bilancio di conseguenza è deludente: animati da principi etici e morali piuttosto che da inconfessati interessi commerciali o energetici, siamo andati in giro per il mondo a tentare di pacificare nazioni in guerra e etnie in conflitto sostanzialmente senza riuscirci o addirittura sortendo l’effetto opposto.
A questo punto si impone un ripensamento, che valuti quale sia davvero l’interesse nazionale e quali le risorse eventualmente da dedicare a missioni il cui scopo umanitario sia chiaro e definito, senza perderci in missioni infinite come quella nei Balcani e conseguentemente ritarando il profilo di missione e la dottrina operativa delle nostre Forze Armate, alle quali è ora di smettere di chiedere l’impossibile, spedendo al fronte ragazzi ai quali vengono date regole di ingaggio vergognose, nel tentativo ambiguo di spacciare per missioni umanitarie quelle che invece sono vere azioni di guerra guerreggiata. Ma poiché la guerra guerreggiata ha dimostrato non essere lo strumento più adatto a redimere non solo le controversie internazionali, ma nemmeno i mini-conflitti tribali, è meglio pensare a nuove e più consone strategie e a quali siano gli interessi che, come nazione, esse devono difendere.
*Università di Trieste, Direttore IISS – Istituto Italiano di Studi Strategici