La mia Grecia, quattro isole, quattro modi di intendere

La mia Grecia, quattro isole, quattro modi di intendere

Due settimane in Grecia. Tutti vanno in Grecia, o prima o poi ci andranno, le isole sono uno spettacolo di sole mare e tranquillità, lo sanno tutti, chi non ha visto “Mediterraneo” di Salvatores o “Dillo con parole mie” di Luchetti, dove pare che le isole siano delle perle incastonate in un altro mondo, in un altro tempo?

Creta (Flickr – Macropoulos)
E poi non ci sono solo le spiagge, non si tratta solo di svaccarsi al sole davanti al solito mare dall’acqua cristallina, in Grecia sono nate la storia, la filosofia, la cultura occidentale, Pitagora è nato a Samo (molti studenti la bombarderebbero per rappresaglia), a Milo c’era la famosa Afrodite, Folegandros fu presidiata dai soldati italiani durante la seconda guerra mondiale. Si spende poco, a luglio non ci sarà la folla bestiale del turismo agostano, se mi stanco di un’isola me ne vado su un’altra. Le premesse sono buone, non dovrei sentire la nostalgia di questa barbara Italia. Arrivo a Creta la mattina presto, l’albergo si trova a pochi chilometri, in una certa Gouves. Prendo l’autobus, puntualissimo, poi tutto a piedi, tanto si tratta di chiedere e andare, lo zaino non pesa e il trolley è come se non ci fosse.

Ecco, chi mi dice destra chi mi dice sinistra, sto Klio Hotel non si trova. Alla fine, già al sommo dell’odio per i Cretesi, ottenebrato dalla canicola delle undici del mattino, fermo una macchina e trovo un obeso che mi dice di aspettare cinque minuti che ripassa. Torna e mi carica, con poche parole. Mi fa fare il giro del paese andando a venti all’ora, mi vieta di mettermi la cintura, mi fa conoscere il nipote anch’egli ciccione e guardacaso noleggiatore di automobili, mi dice di andarmene presto perché lì non c’è nulla di bello; infine approdiamo all’albergo, allorché mi rifila la sfacciata richiesta di dieci euro per il servizio. «Sei proprio un galantuomo», gli rispondo, tienti il tuo deca e sparisci. Sono una borsa di euro che cammina, il turismo redistribuisce, lo sapevo. A Creta tutti parlano un ottimo inglese, altro che Spagna o Italia, soprattutto mi stupisco della loro splendida pronuncia: certo, sono tutti inglesi! Proprietari di negozi, alberghi, ristoranti, pieno di inglesi in fuga dal clima orribile dell’Inghilterra e radicati in un perenne Impero. La signora inglese del ristorante indiano dove vado a riempirmi, passando ogni tanto dal mio tavolo nei quarantacinque minuti di attesa del piatto ordinato, mi chiede del mio progetto di vacanza e aggiunge che è invidiosa di me perché lei, nonostante sia lì da tanti anni, non è mai stata a Santorini.

Certo che è bella, neanche Capri è così al contempo romantica e selvaggia, turistica e antica. Per girare in quest’isola dalla forma a ferro di cavallo vado a noleggiare una bella Skoda rossa che mi porta ovunque. Sempre per per farmi fregare un po’ di soldi faccio il pieno e quando vado a restituire la macchina la metà del serbatoio è ancora lì; la signora mi ringrazia della gentilezza e dal suo sorriso di superiorità deduco che mi mette nella schiera di quelli che votano per il piazzista di Arcore.

Oia, Santorini (Flickr – MarcelGermain)
Sulla punta orientale della vulcanica Santorini si trova Oia, la parte più rinomata e traboccante di alberghi, calamita di borghesi affamati di panorami mozzafiato, che pagano sorseggiando un Cactus Juice per soli dieci euro. A Milos si vedono le spiagge migliori, le più isolate e vergini, alcune raggiungibili solo dopo un’ora di quad su strade sterrate e impervie, prove da superare per avere il premio sospirato. Questo vale per la splendida caletta di Tsigrado, cui si arriva solo dopo aver rischiato la pelle in uno stretto e scivoloso passaggio provvisto di corda, ma non per l’agevole Sarakiniko, un capolavoro dell’erosione, un tripudio meraviglioso del bianco delle rocce calcaree e del turchese delle acque chiarissime e tiepide.

La sera a Ios (Flickr – cbettsphotography)
Non so perché son dovuto sbarcare anche ad Ios, […]. Se non fosse colonizzata da una massa di cavernicoli del tunnel del divertimento sarebbe anche bella, ma la forza distraente è tale che non ricordo più neanche la stupefacente bellezza della spiaggia di Manganari, dove immaginavo d’esser finito in Polinesia. In Polinesia fino alle tre del pomeriggio, fino a quando due autobus, quel giorno, osano scaricare uno stormo di pre-trentenni, per lo più americani, devastatori del silenzio. A ciò si aggiunga la visione di uno di questi, stavolta al ristorante, la sera, a petto nudo e pinocchietto (io ero in pantaloni e camicia); senza tacere l’ovvia passerella di corpi femminili […]. Per disintossicarsi da questa umanità ci voleva Folegandros, isola tanto affascinante quanto quasi abbandonata. Ci tornerei domani.

Folegandros (Flickr – Alan_W100)
L’isola dev’essere rispettata, non può essere travolta dalla folla urbana, detiene un sacrosanto diritto a non essere calpestata da un esercito di divoratori di bellezza. L’insularità non dev’essere deflorata; si tratta di uno spazio sottratto dalla realtà quotidiana, ma allo stesso tempo affacciato sull’infinito – spazio chiuso, delimitato dai suoi confini, circondato dall’immensità. Una dimensione spazio-temporale altra: si parte per rifugiarsi, evadere, per dormire dentro i suoi confini protettivi, via dalla pazza città. A proposito dell’insularità Camilleri dice: «Un siciliano (e quindi un sardo o un corso), per recarsi ‘in continente’ deve necessariamente compiere un viaggio per mare, il cui senso è sempre lo stesso sia che il viaggio duri una notte o i quaranta minuti che occorrono per attraversare lo stretto di Messina. Un napoletano che si reca a Milano non prova la stessa sensazione di distacco dalla propria terra che prova un isolano. Vogliamo qui parlare della sacralità dell’acqua e del sacrilegio del ponte, in particolar modo di quel ponte in movimento che è una nave, un bastimento? Non parliamone, ma è anche vero che nell’animo di un isolano che lascia la sua terra s’annida un microscopico, invisibile, subatomico senso di trasgressione, di sacrilegio appunto».

Il sacrilegio è stato tornare qui, in questo rumore di ferraglia e macerie, in questo vociare litigioso e cieco, in questa Lombardia oppressa dal cemento e piena di spazi abitativi, spesso vuoti e utili solo a congelare privilegi e deturpare il paesaggio. Andare via?

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