Quando si parla di Islanda la prima cosa che va presa in considerazione è che si tratta di un Paese con circa 300mila abitanti. Volendo fare una battuta potrebbero governare tranquillamente anche solo aprendo un gruppo su Facebook. Siamo di fronte a una delle più avanzate democrazie del mondo. Sempre tra i primi posti in tutte le classifiche: banda larga, diritti dei gay, pari opportunità, libertà di stampa, lavoro…
Visto che sulla crisi finanziaria e su come è stata affrontata ci sono varie leggende e alcune informazioni confuse, vale la pena chiarire alcuni punti. Così per renderci poi conto che quella che qui in rete viene definita superficialmente «una rivoluzione senza spargimento di sangue» è semplicemente la democrazia quando è in piena forma. Nella sua massima espressione che comprende la partecipazione attiva e consapevole dei cittadini e il rispetto della politica verso le esigenze e le domande che arrivano dal basso, dalla società civile.
Cosa è successo con la crisi del 2008? In sintesi la crisi finanziaria del 2008 portò l’Islanda sull’orlo della bancarotta. Il Paese si trovò tra l’altro con un debito di circa 4 miliardi di dollari nei confronti di 300 mila risparmiatori inglesi e olandesi colpiti dal fallimento della banca islandese online Icesave (controllata da Landsbanki, fallita appunto in quell’anno).
I cittadini si sono mobilitati, hanno protestato e hanno firmato una petizione per bloccare l’accordo del Parlamento islandese con Regno Unito e Olanda per il rimborso.
E proprio in seguito alla petizione, il presidente dell’Islanda Ólafur Ragnar Grímsson, si è rifiutato di firmare l’accordo e ha indetto un primo referendum nel 2010: i no vinsero con il 93% dei voti. Il Parlamento ha successivamente approvato con netta maggioranza un altro accordo, meno pesante per l’Islanda. Ma Grímsson si è ancora una volta rifiutato di firmare e ha indetto un secondo referendum ad aprile 2011. I no sono prevalsi di nuovo anche se per il 60%. Secondo Grímsson era necessario ricorrere a un referendum per soddisfare la petizione fatta da 42 mila dei 318 mila abitanti dell’Islanda. Il primo ministro del governo di coalizione di centro sinistra, Jóhanna Sigurðardóttir, ha fatto sapere, in ogni caso, che lo Stato islandese non ha nessun problema a rimborsare i suoi debiti. E così anche il ministro delle Finanze, Steingrímur J. Sigfússon: «Le riserve sono sufficienti a coprire tutti pagamenti dei prossimi anni». Quindi il debito non è stato annullato come in alcuni articoli sulla “rivoluzione islandese” si lascia credere.
Il referendum ha respinto le modalità individuate dal Parlamento per ripagare il debito, non di certo il debito stesso (anche perché non si capirebbe come mai una parte degli islandesi – il 7% al primo e il 40% al secondo referendum – avrebbe votato contro la cancellazione del debito). Ed è proprio di pochi giorni fa la decisione del Governo di Reykjavík di onorare il debito verso il Regno Unito con l’eventuale vendita di alcuni asset. La crisi è stata per l’Islanda una grande occasione di rilancio e il Paese ora si prepara ad adottare una nuova legge fondamentale redatta con la costante partecipazione dei cittadini attraverso internet e social network (che non si può di certo definire demagogicamente «il potere al popolo»). Dunque, la democrazia in tutta la sua complessità e con tutti i suoi chiaroscuri ha funzionato. Partecipazione dei cittadini, elezioni, referendum. Questa è la rivoluzione islandese.
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