Ma perché a Tremonti dà fastidio tassare i veri ricchi?

Ma perché a Tremonti dà fastidio tassare i veri ricchi?

Diversi miliardari chiedono di pagare più tasse ma i governi rispondono: “no grazie, preferiamo prendere i soldi dai più poveri”. Non è una scena di una commedia sul mondo al contrario, non stiamo assistendo ad una rappresentazione di Tupsy-Turvy della coppia Gilbert e Sullivan. Sì forse il mondo ormai non ha più capacità di produrre senso ma normalmente se uno vuol darti dei soldi puliti, visto che ne ha da sbattere via, e un altro non vuole invece sborsare, perché non ha un soldo per far ballare una scimmia, ci si rivolgerebbe al primo e non al secondo. Tanto più davanti ad una crisi che si fa sempre più acuta con il fantasma del ritorno della recessione e al termine di un ventennio dove gli squilibri fra abbienti e non abbienti si sono dilatati in maniera impressionante. Insomma siamo in una situazione al limite del paradossale e val la pena cercare di capire perché. 

Prima di tutto ci sono alcune differenze, spesso abissali fra il contesto di un Warren Buffett che chiede a Obama di pagare più tasse, visto anche che ne paga meno della sua segretaria, e quello di Giuseppe Scassellati Sforzolini, l’avvocato e socio de Linkiesta, che una settimana fa chiedeva in una lettera di poter contribuire di più alle casse dello Stato (“Io, ricco, voglio pagare la patrimoniale una tantum“). E non si tratta solo di un problema di aliquota con Buffett che viene tassato al 15%  mentre il carico fiscale da noi giunge, con questa manovra, al record del 53%. Obama i veri ricchi li vorrebbe tassare di più ma ha contro un Congresso a maggioranza repubblicana dove gli estremisti del Tea Party rendono impervia la via di accordi al centro. E dove comunque l’opinione pubblica, per ragioni storico-culturali, nei sondaggi si dice sempre contraria, nella stragrande maggioranza, a qualsiasi idea di redistribuzione delle ricchezze.

In Italia invece un’esigenza redistributiva sarebbe anche condivisa dall’opinione pubblica, e molto probabilmente anche da larghi settori del Parlamento. Non solo sarebbe giusto, ma funzionerebbe anche. Il nostro sistema fiscale, così sbilanciato sui redditi anziché gravare sui patrimoni, è uno dei fattori che limita la nostra competitività. Ma da noi, a differenza che a Capitol Hill, è proprio il governo a non volerne sentire parlare e a volere invece tassare sempre e solo il lavoro, facendo poco contro l’evasione e lasciando intatti i patrimoni. Anche se, dati Bankitalia, alla fine del 2008 la ricchezza netta era pari a 7,8 volte il reddito disponibile lordo della famiglie italiane, rapporto in linea con quello della Francia (7,5) e del Regno Unito (7,7), lievemente superiore a quello del Giappone (7), e di molto superiore a quello del Canada (5,4) e degli Stati Uniti (4,8). Non solo ma questa ricchezza è cresciuta in maniera esponenziale negli ultimi 16 anni come si vede dal grafico qui sotto (tratto sempre dai dati 2009 sulla ricchezza delle famiglia italiane di via Nazionale). 

Viene quindi da chiedersi il perché di tanta ritrosia a far pagare le tasse ai grandi patrimoni e agli evasori. A parole l’impostazione economica del governo prima della crisi era l’opposto. Ad esempio Marco Fortis, uno degli economisti più amati da Giulio Tremonti, scriveva ancora lo scorso dicembre che «se anche volesse, la Grecia oggi non potrebbe nemmeno introdurre un’imposta patrimoniale per risanare i propri conti statali perché il patrimonio dei greci si è semplicemente dissolto e non c’è più nulla da tassare ma solo spesa pubblica da tagliare. L’Italia ha invece il più alto rapporto tra ricchezza finanziaria netta delle famiglie e Pil in Europa, di gran lunga davanti a Francia e Germania. Ma molti (anche in Italia) lo ignorano». E anche l’inquilino di via XX Settembre insisteva sulla vastità del patrimonio italiano. Il mantra del ministro era infatti sempre stato lo stesso, ripetuto con la stessa ossessività con cui usava la metafora del videogioco per la crisi: nel nostro paese, diceva in continuazione, lo stock di «ricchezza privata nazionale è otto volte il debito pubblico e la ricchezza finanziaria due volte. L’Italia ha le fondamenta per finanziarsi, altri paesi no». Un disco rotto, una frase che era diventata un tormentone, potevi scriverla prima ancora che parlasse perché era matematica che, prima o poi, l’avrebbe detta.  

Così come, restando in tema di ripetizione, è da quando un cittadino italiano nasce che inizia a notare che bisogna cercare le tasse nel Paese reale dei mega yacht intestati a nullatenenti o dei giganteschi Suv parcheggiati sui marciapiedi e da cui scendono improbabili poveri. «Possibile – chiedeva il Corriere in un articolo dell’estate scorsa – che ci siano 94mila yacht sopra i dieci metri ma solo 75.689 contribuenti su 41 milioni (uno su 542) con imponibili sopra i 200mila euro? E possibile che di questi l’81,6% sia dipendente o pensionato?». Certo che è possibile, l’evasione fiscale è come la mafia, un problema di volontà politica, che a Tremonti evidentemente manca, forse per formazione professionale essendo sempre stato il fiscalista dei grandi patrimoni, forse per miopia, forse perché il governo è troppo debole per inimicarsi i ceti a cui si è fin qui appoggiato. L’Agenzia delle entrate sotto la sua regia si è concentrata nel far pagare le imposte dovute più che a fare emergere il sommerso. La rivolta di Bossi a Pontida contro Equitalia («c’è gente che non poteva pagare ed Equitalia gli ha portato via la casa e la macchina.») era dovuto a quello. E la manovra del governo va proprio nella stessa direzione. Spremere chi già paga anziché andare a cercare chi, seguendo l’antico oracolo greco, vive nascosto.  

Solo che con le tasse si modella la società, si premia e si punisce, da qui passa il fulcro del rapporto fra cittadino e Stato che si è costruito sin dagli albori della nostra storia. La geometria di Euclide fu rivoluzionaria per i faraoni egizi perché potevano così finalmente misurare i campi e stabilire quanto fosse loro dovuto. Nella storia una tassazione ritenuta ingiusta è stata alle base di un numero infinito di rivolte poi scoppiate per il proiettile o la parola sbagliata, dalle sollevazioni ebraiche contro l’Impero Romano alla Poll tax inglese di fine anni ’90.

In un Paese che cade a pezzi dopo vent’anni di crescita anemica, i nodi sono venuti al pettine e ci sono diverse parti del patto sociale che andrebbero riscritte. Il patto fra ricchi e poveri, ma anche quello fra Nord e Sud e quello fra giovani e anziani. Spesso queste categorie sono coincidenti ma non sempre. Con le tasse si allentano o si rafforzano questi patti. Solo che da questa manovra l’unico ad uscire rafforzato è quello con i grandi patrimoni e con le ricchezze nascoste. Mentre la ridefinizione degli altri patti viene lasciata ad un futuro eventuale, in quella che è oramai diventata una bieca amministrazione del presente.

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