Ieri, in redazione a Linkiesta, circolava una certa instabilità giornalistica a cui nessuno sapeva dare forma compiuta e che poteva riassumersi nella seguente domanda: come potranno l’Italia e gli italiani – con quali forme, con quali attenzioni, con quali carinerie – rasserenare la vita operosa e industriale ma anche sempre piena di inquietudini dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne (l’ultima in ordine di tempo, per bocca di Yaki Elkann, è stata: ci dica, l’Italia, se vuole che la Fiat continui a produrre macchine)?
L’incertezza è durata qualche ora, il tempo di far girare per le stanze come aeroplanini di carta le ipotesi più diverse e, lo ammettiamo, anche le più goliardiche, sino a quando, verso il calar della giornata, il manager svizzero-canadese ci ha tolto d’impaccio regalandoci lui stesso, la soluzione all’increscioso dilemma: scegliere il governo del Paese che lo ospita (gradito).
È l’estrema frontiera del manager globalizzato, quella di incidere così pesantemente anche sugli equilibri politici e Sergio Marchionne, probabilmente, ha aperto una prateria che è ancora tutta da battere. Ha utilizzato la sua spiccia modernità, lontana anni luce dai modi dell’Avvocato ma pesantemente distante anche dagli atteggiamenti seppur ruvidi di Cesare Romiti, che nell’immaginario Fiat rimaneva pur sempre un (autorevole) dipendente. Mentre qui parliamo di un signore che sembra il padrone. E che aspira anche a diventarlo?
Un endorsement come quello di ieri a Luca di Montezemolo, così evidente e clamoroso nelle parole e nei concetti, non rubati da un cronistello di passaggio ma pesati da Marchionne sino all’ultima sillaba, ecco, un atteggiamento di questo tipo, che invade il cuore della politica italiana, doveva toccare alla Famiglia. Sarebbe toccato alla Famiglia. Per un motivo storico, e anche, se permettete, di rispetto reciproco per la storia importante che la Fiat ha avuto nella nostra Italia.
Ma in questo momento il giovane Elkann, dai modi certamente gentili, sta succhiando tutto il nettare possibile dall’amministratore delegato in vista della sua crescita industriale, e non ha ancora la formazione necessaria per immaginare, in parallelo alla vita dell’azienda, anche una forma sostenibile di “pressione” sui governi. Come accadeva un tempo, con forme certamente diverse.
Resta una qualche perplessità sullo stile dell’uomo in blu, che ieri – proprio nel giorno di John – avrebbe potuto lasciare il proscenio del meeting di Rimini interamente al suo giovane azionista di maggioranza, in luogo di rubarglielo così impunemente con l’incoronazione di Montezemolo.
Quello che può diventare un problema in Fiat, è già, in qualche misura, un problema in Italia. Se non appare come uno sfregio nel tabernacolo dei buoni sentimenti, possiamo timidamente ammettere che l’Italia è già sufficientemente supina alle scorribande del nostro manager di riferimento e sarebbe auspicabile uno scatto d’orgoglio intellettuale? Lo scambio profitti-perdite non sembra essere più in equilibrio, e qui non è più soltanto questione di contratti nazionali che vanno in discussione, di referendum sotto capestro, di Piani nazionali che non appaiono propriamente luminosi. C’è qualche cosa di più in discussione: è la dignità del confronto, che deve rimanere alto e autonomo. Mentre, alle volte, l’impressione è che ci facciamo ombrello con Marchionne, spedendolo avanti a guerreggiare in quei territori da conflitto sociale dove sappiamo che ne avremmo solo da perdere, ma che in realtà identificano il decoro e la capacità dei governi. Marchionne non è un nostro ministro, e peraltro ieri a Rimini ha ribadito che non gli passa per il cervello di diventarlo. Quando pensiamo di usarlo, è più lui che usa noi.
Adesso il nostro bravo manager vuole scegliere anche il governo che più gli piace, e già ci possiamo dividere tra chi la considera una forma di chiarezza estrema e chi, invece, un’inaccettabile invasione di campo.
A noi resta solo un dubbio, peraltro ingenuo: ma lui vota qui?