La doppia recessione minaccia Stati Uniti ed Europa e la popolarità di Obama scende in picchiata fino a sfiorare il 40%. La tradizione vuole che per essere rieletto un presidente debba avere un gradimento sopra il 50% e per lui non sarà facile risalire la china nei prossimi quindici mesi, con una disoccupazione che non si sposta dal 9,1%. I continui crolli in borsa alimentano il pessimismo, la fiducia nell’economia è al minimo negli ultimi 31 anni e questo mese la vendita delle case è caduta per la terza volta consecutiva. Morgan Stanley – in un rapporto firmato da Joachim Fels and Manoj Pradhan – parla di feedback negativo. Un feedback che sta travolgendo le speranza di rielezione del presidente.
Nei comizi che ha tenuto in un giro pre elettorale appena concluso in tre Stati del Mid West, Obama ha spesso maledetto la sfortuna. Prima è arrivata la crisi giapponese provocata dallo tsunami a indebolire l’economia internazionale, poi è esplosa la crisi provocata dal debito dei paesi europei, infine sono arrivate la primavera araba e l’emergenza in Libia a far salire i prezzi del petrolio. Ma Obama sa che non può imputare alla sola malasorte il dramma di 25 milioni di americani che cercano lavoro. Un presidente sfortunato non piace agli elettori. Un leader deve indicare le vie di uscita e finora Obama è sembrato timido nel mostrare le strade da percorrere.
Per questo nei giorni scorsi ha voluto creare l’aspettativa di una svolta promettendo di presentare al paese «un piano per il lavoro basato su proposte molto specifiche». L’appuntamento è per il 5 settembre, il Labor Day. Nessuno conosce le proposte del presidente, ma alcune indiscrezioni sono uscite. È probabile che Obama proponga una nuova “banca per le infrastrutture” per ricostruire una rete di autostrade, ferrovie, acquedotti logorata da decenni di incuria; forse prometterà di ridefinire alcuni accordi per il commercio estero, in modo da limitare le importazioni e far crescere le esportazioni; inoltre potrebbe offrire nuovi sgravi fiscali a chi crea posti di lavoro. È difficile immaginare che un piano di questo genere possa rovesciare le sorti dell’economia in pochi mesi, in una situazione internazionale così precaria. Sembra invece più probabile che il presidente, per ottenere qualche spostamento nell’opinione pubblica, aumenterà gli attacchi ai repubblicani sul tema delle tasse ai ricchi.
Assisteremo presto a una battaglia culturale tra i due schieramenti che si annuncia avvincente. Al populismo della destra – centrato sulla lotta contro gli sprechi della pubblica amministrazione – verrà contrapposto un populismo di sinistra: «tassiamo i miliardari». La destra repubblicana comincia a sostenere che la crisi economica in corso rappresenta la sconfitta definitiva della socialdemocrazia: quella che si è imposta in Europa fin dal dopoguerra e quella che Obama sta cercando di far passare negli Stati Uniti. Si tratta forse di una forzatura propagandistica, ma il messaggio è forte e si basa su alcuni dati di fatto inoppugnabili: l’Europa sta affondando sotto il peso del debito pubblico di molti paesi, mentre negli Stati Uniti le misure anticrisi di Obama – un trilione di dollari di incentivi – hanno fatto esplodere il deficit ma non sono riuscite a rilanciare l’economia.
Obama risponde affermando il debito che soffoca il paese, e che impedisce di intervenire in modo appropriato per stimolare l’economia, è dovuto ai tagli alle tasse dei più ricchi che furono introdotti nell’era Bush, e che i repubblicani non vogliono ridiscutere. Sono vent’anni che i democratici preferiscono glissare sui problemi fiscali in campagna elettorale. Da quando Ronald Reagan ha vinto la sua battaglia culturale, parlare di tasse ha sempre portato acqua al mulino dei repubblicani. Ma forse il vento sta cambiando e i messaggi pubblicitari dei democratici sono sempre più espliciti: accusano i repubblicani di voler sacrificare l’assistenza ai poveri e agli anziani pur di salvare gli sconti fiscali ai miliardari e i sussidi miliardari alle compagnie petrolifere.
I toni del dibattito politico stanno cambiando in modo contraddittorio negli Stati Uniti. Da una parte il baricentro della cultura politica collettiva, stando ai sondaggi, si è spostato su posizioni conservatrici: la maggioranza degli americani vuole tagliare la spesa pubblica e chiede uno stato più leggero. Ma dall’altra la stessa maggioranza pensa che il welfare in difesa degli anziani vada preservato. E in un recente sondaggio del Washington Post, il 72% dei cittadini si dice favorevole a tassare di più chi ha un reddito superiore ai 250 mila dollari allo scopo di ridurre il deficit.
Se Obama lancerà una campagna per aumentare le imposte ai ricchi, come sembra probabile, è probabile che i repubblicani si opporranno, accusandolo di voler praticare la lotta di classe. Ma se bocceranno le proposte del presidente – i numeri lo consentono – si tratterà di una scelta impopolare. Per vincere le prossime elezioni, paradossalmente, Obama sembra poter contare più sull’impopolarità delle posizioni degli avversari che sulla fiducia che gli americani sembrano avere in lui. L’estremisno che cresce all’interno del partito repubblicano gioca a suo favore.