Quando il gioco si fa duro, Bossi gioca e vince pure

Quando il gioco si fa duro, Bossi gioca e vince pure

PONTE DI LEGNO (BS) – Rivelatrice la risposta alla telefonata di Raffaele Bonanni, il segretario della Cisl, un secondo prima che si aprisse il più drammatico consiglio dei ministri d’agosto: «State tranquilli, sulle pensioni non mollo». E così è stato. La previdenza è rimasta fuori (tranne un anticipo al 2016 sull’innalzamento a 65 anni per le donne) dalla manovra “lacrime e sangue” richiesta dalla Bce e dalla spinta dei mercati finanziari.

Si è avvertito forse poco, ma il vecchio leone padano ha ritrovato in questo frangente non solo la piena leadership di una Lega smarrita e squassata dalle guerre intestine, ma altresì la sua antica abilità tattica nel destreggiarsi tra spinte contrastanti e gravi rischi di tenuta dell’esecutivo e della maggioranza parlamentare. Quasi che, di fronte alla devastante e ricorrente crisi finanziaria e politica («la realtà un bel giorno ha preso il treno e ci è venuta a trovare…»), sentisse la necessità di caricarsi sulle spalle il peso complessivo di uno scenario sconsolante e il compito quasi impossibile di “trovare la quadra” con l’obiettivo di salvare non solo la stabilità di governo ma una sia pur minima prospettiva di portare a compimento il disegno riformatore federalista.

Lo si è capito anche nei giorni precedenti, quando era l’unico leader politico a dispensare ai microfoni pillole di commenti spesso ancipiti e talvolta contraddittori: se con Berlusconi c’erano «rotture di coglioni», Tremonti era però «fumoso» e talora «insoddisfacente». Trasparente la diffidenza per il governatore di Bankitalia (e prossima guida della Bce), sentito come il vero “commissario esterno” («Draghi sta sempre a Roma, e forse a Roma è stata scritta la lettera confidenziale della Bce»), ma insieme «bisogna seguire l’Europa e stavolta il condizionamento è positivo»…e via esternando alla sua maniera popolana, scostante e ambigua.

Il Bossi ha giocato le sue poche carte ai tavoli riservati, tra liti esplicite e dissensi furibondi e usando le diverse anime del suo stesso partito in evidente crisi di identità: accendendo di volta in volta l’ipertremontiano Calderoli e l’antitremontiano Maroni, e lasciando che sulla scena pubblico-parlamentare il giovane capogruppo Reguzzoni recitasse il piatto e deludente mantra leghista, quasi come uno schermo alla mediazione feroce tessuta in segreto con tenace determinazione. Il risultato non è certo trionfale: ma tenere comunque a galla due navi in tempesta (la Lega e il governo) era una prova da far tremare i polsi ed evidentemente non ancora superata.

Sacrificate un po’ di provincie (su 36 da abolire, il Carroccio ne perde 4, Biella, Lodi, Belluno e Sondrio) resta altissimo il “grido di dolore” dei Comuni, rispetto ai tagli previsti e ai vincoli ferrei del patto di stabilità. Non è un caso che sindaci dei municipi “virtuosi” (come Tosi di Verona o Fontana di Varese) lancino l’allarme e incanalino la loro protesta sull’interlocutore naturale, il titolare del Viminale. Ma anche i margini di dissenso di Maroni appaiono ridotti dal quadro di emergenza economica internazionale (anche la di là della polemica sulla grottesca guerra in Libia che riapre il traffico di migranti). Certo la classe dirigente padana, cresciuta e più stimata del passato con la legione degli amministratori locali, entra in sofferenza, se non in conflitto con la strategia di un partito incamiciato nella responsabilità di governo nazionale: ma la gestione diretta, se non gelosa, di Bossi non può rispondere più di tanto alla spinta degli enti locali, se non nella condizione della “riduzione del danno”.

D’altra parte, quando entra nel pieno degli arcana imperii, Bossi ha sempre giocato in prima ed esclusiva persona. Ai parlamentari di prima nomina ha sempre ordinato di «dimenticare quello che avevano imparato fino ad allora» e di non cadere nelle trappole del Palazzo romano. Lui solo aveva avuto la fortuna, da unico Senatùr, (tra il 1987 e il ’92) di svolgere senza responsabilità un fruttuoso apprendistato nei corridoi e nei sottoscala del Parlamento, dove si esercitano baratti e congiure e dove si amministra il potere reale.

E se al momento i suoi “non capivano” importava poco. La pedagogia politica e (e pure il “fiuto” leggendario) passava poi dal continuo contatto con la base, con le serate e i comizi alle feste di paese, con l’intera Padania battuta per tutta l’estate. Forse ci si dimentica che Bossi è l’unico (se non l’ultimo) leader che “segue il suo popolo”, ascoltandolo più di quanto appaia. E su un tornante così arduo, come la manovra, non si è discostato dall’abitudine, a cominciare dalle pensioni. Dura ancora? Certo, finché reggono il fisico e il feeling: la prima prova si avrà presto, nel tradizionale comizio di Ferragosto, in quel di Pontedilegno. 

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