Ma perché i tedeschi hanno questa passionaccia per l’oro italiano? Nei giorni scorsi qualcuno ha suggerito a Roma di vendere parte delle riserve auree per fronteggiare la crisi. Non è la prima volta che a nord delle Alpi dimostrano tanta bramosia di mettere le mani sul nobile metallo peninsulare. Una volta ci sono anche riusciti, nel 1527, col Sacco di Roma, quando i lanzichenecchi tedeschi di Carlo V portarono via l’oro letteralmente a carrettate. Gli è andata meno bene alla fine della Seconda guerra mondiale, quando hanno dovuto restituire l’oro della Banca d’Italia. È invece sparito l’oro jugoslavo, che a loro volta gli italiani avevano depredato a Belgrado, e avevano depositato nei forzieri dell’istituto centrale. Non si sa bene dove sia finito e ogni tanto qualcuno si mette a cercarlo, magari con un minisommergibile in fondo a un lago.
In tempi più recenti le cose sono andate in maniera più civile, ma gli italiani, alla fin fine, l’oro non l’hanno mai mollato. Se oggi l’economia è malata, non è che nel 1974 stesse tanto bene. Gli effetti dello choc petrolifero stavano facendo barcollare le potenze industriali e avevano fatto venire meno le illusioni di poter sempre disporre di oro nero a poco prezzo. L’Italia di allora ha disperato bisogno di liquidità, la Germania ce l’ha e gliela concede, ma chiede in garanzia oro giallo. Un bel po’: 516 tonnellate, pari al 20 per cento delle riserve auree italiane. Nei forzieri di via Nazionale erano custodite 2565 tonnellate d’oro, che facevano di quello italiano il quarto stock aureo mondiale, dietro a Stati Uniti, Germania e Francia (oggi Roma possiede un centinaio di tonnellate in meno, 2451, ma la Francia è passata dietro).
Il 31 agosto 1974 il cancelliere tedesco Helmut Schmidt, socialdemocratico, e il presidente del consiglio italiano, Mariano Rumor, democristiano (il quinto governo Rumor – Dc, Psi, Psdi – dura neanche un anno, da marzo a novembre 1974) sono ritratti mentre si danno la mano in quel di Bellagio, sul lago di Como. Hanno appena stretto un accordo. Lasciamo che a spiegarcelo siano le parole di Francesco Forte, economista (sarà poi ministro con Fanfani e con Craxi) pubblicate nella Stampa del giorno successivo. «La Banca federale germanica metterà a disposizione della Banca d’Italia per un biennio, con un onere di interessi uguale a quello dei buoni del Tesoro degli Stati Uniti, due miliardi di dollari contenuti nelle proprie riserve. La Banca d’Italia, dal canto suo, garantisce il ripagamento delle somme utilizzate su tale apertura di credito mediante una quota d’oro delle sue riserve».
L’oro, in ogni caso, non viene trasferito, rimane fisicamente in via Nazionale e Roma si impegna a ripagare il debito in dollari. Soltanto se non fosse stata in grado di ripagarlo, sarebbe stato materialmente trasferito l’oro.
L’Italia non è in grado di ripagare il debito alla Germania e dopo due anni il prestito viene rinegoziato. Questa volta nei giornali l’accento è posto con meno rilievo sul prestito accordato e molto di più sull’oro dato in garanzia. “Bonn ha rinnovato il prestito all’Italia con una garanzia di 650 tonnellate d’oro”, titola La Stampa del 26 agosto 1976 (interessante notare il ruolo del mese d’agosto nelle crisi economico-finanziarie). Ora siamo a un quarto delle riserve auree italiane perché nel frattempo il dollaro si era rivalutato (un dollaro Usa valeva 841 lire italiane, pari a € 0,43; oggi quota € 0,70), mentre il valore dell’oro era sceso da $ 155 l’oncia del 1974 a $ 103 nel 1976 (oggi è quotato $ 1.700 per oncia).
La situazione italiana in quei due anni è mutata completamente. Il 20 giugno 1976 si tengono le storiche elezioni del «turatevi il naso e votate Dc», secondo l’invito formulato da Indro Montanelli, direttore del Giornale. I partiti laici di centro (anche se i repubblicani, allora, ci tenevano tanto a dire che erano di sinistra) ne escono prosciugati, la Dc evita il sorpasso del Pci, ma ne risulta un’Italia quasi ingovernabile. Giulio Andreotti si inventa la formula della “non sfiducia”: un monocolore Dc che si regge sulle astensioni di Pci, Psi, Psdi, Pri, Pli. Il 6 maggio c’è anche il terremoto in Friuli che, con la replica del 15 settembre, determinerà la necessità di un ulteriore prestito finalizzato alla ricostruzione. Questa è l’atmosfera in cui si va alle trattative (cancelliere tedesco è sempre Schmidt).
La Stampa (di spalla su cinque colonne titola «De Benedetti lascia la Fiat», mentre la notizia del rinnovo del prestito è in taglio basso) spiega che la Germania possiede dollari «in quantità addirittura eccessiva, imbarazzante» e quindi non le dispiace affatto di cedere un po’ di quella liquidità alla bisognosa Italia. Rimane però un problema di fondo: il governo ha bisogno di rastrellare risorse per evitare che camion carichi di lingotti prendano la via di Francoforte (lo eviterà) e per ricostruire il Friuli (sarà ricostruito a tempo di record, poi mai più così). Quindi che fa Andreotti? Vara una manovra aggiuntiva. Solo che al tempo non si chiamava in questo modo, si preferiva adottare il termine “stangata“ mutuato dall’omonimo film del 1973 con Paul Newman e Robert Redford. Viene aumentato di 25 lire il costo della giocata di ogni colonna del Totocalcio e soprattutto viene introdotto il superbollo sulle vetture diesel e a gas che, abolito nel 1997, influenzerà per vent’anni il mercato dell’auto in Italia favorendo i modelli a benzina. La torchiatura non è sufficiente e qualche mese più tardi, nel marzo 1977, Andreotti per risparmiare di più abolisce un po’ di festività religiose (era democristiano, poteva permetterselo, mica come adesso che dicono tutti di essere laici) e ne sposta un paio di civili: 2 giugno e 4 novembre vengono accorpate alla domenica successiva, mentre vengono soppresse Epifania, San Giuseppe; Ascensione, Corpus Domini, Santi Pietro e Paolo. Lo stesso Andreotti che l’aveva eliminata, promuoverà poi il ripristino della festa dell’Epifania nel 1985.
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