Se ne sono andati

Se ne sono andati

Roman Opałka

(27 agosto 1931 – 6 agosto 2011)

Pittore francese-polacco, è morto all’ospedale di Chieti, anche se molti hanno scritto «di Roma». Viveva a Teillé, vicino a Le Mans. Era in vacanza in Italia e gli mancavano una ventina di giorni per toccare gli ottant’anni, che avrebbe festeggiato con gran numero d’invitati a Venezia. L’ultimo numero che aveva scritto nell’estremo acrilico su tela era l’8. Quel numero – che nella visione buddista rappresenta l’infinità – è stato preceduto, nell’opera di Opałka, da milioni di numeri reali, in successione dall’uno in poi, dipinti su un esercito di tele, a partire dal 1965. Quando l’artista viveva ancora in Polonia.

Era passato in Francia, stabile, nel 1977, dopo esservi nato, nel Nord, a Hocquincourt (nella Somme) o ad Abbeville-Saint-Lucien (nell’Oise). I genitori rimasero sempre incerti sul luogo esatto dov’era venuto alla luce. Entrambi polacchi, si erano spostati in Francia nella vague dell’emigrazione est europea dei primi anni Trenta. Erano stati rimpatriati in Polonia nel 1946 (una storia abbastanza simile a quella della famiglia Polanski, cioè i genitori di Roman, il regista, anche loro francesizzati).
Gli anni che vanno dai suoi studi giovanili di grafica e belle arti a Łódź al definitivo ritrasferimento nel Paese della nascita, devono aver sedimentato in Roman Opałka una sensazione di base sul tempo, sugli artifici del suo scorrere (velocità repentina, e ore di lentezza, o di morte apparente), e sulla sua natura sostanzialmente costruita: i giorni, le date, le scansioni della storia, e dell’età, tutto umanamente inventato per far fronte alla bellezza terrificante dell’infinito. Espresso, razionalmente, dai numeri che, in sé, non terminano. Una massima forma d’arte, o dei segni, o delle “biografie”, cioè grafie di vita.

Come sanno fare pochi artisti, Opałka si è spiegato, fulmineo, per immagini e concetti immediatamente afferrabili e concatenati: «Ogni numero è una vita, tutto il mio lavoro è una sola cosa». E poi: «Il tempo, come lo viviamo e lo creiamo, comprende la nostra scomparsa». E ancora: «il mio è un lavoro che impegna tutta la vita, perché l’ultimo numero che disegnerò, significherà la fine della mia esistenza». Restavano da scegliere i colori di quell’insieme: non forti o decisi (il verde, il giallo, il rosso, eccetera) ma una sfumata dal nero, ai grigi, al bianco quasi assoluto. Il lavoro, cioè la riflessione, o l’opera interminabile, era concepita. In Polonia, dal 1965, in un tempo di socialismo ancora molto reale, lì trapiantato e, nelle intenzioni dei suoi creatori, privo di scadenza. Il risultato – non ossessivo, ma, in quella prospettiva, naturale – è stato questo. Da quell’anno, fino alla morte, ogni giorno, Roman Opałka ha dipinto una tela monocroma, e su di essa una serie numerica – dall’1 dell’inizio in avanti – che si esauriva solo quando ogni quadro (sempre delle stesse proporzioni, 196×135) esauriva il suo spazio. I numeri sono calligrafati, minuti, e, nelle ultime tele, chiamate «invisibili», regna il bianco con numeri bianchi. Non tutti hanno capito la sua arte. In mostra a Budapest le tele raccolsero diversi sputi. E il noto critico polacco Andrzej Osęka (che lavorava per la Pap, l’agenzia di stampa per cui scriveva le sue corrispondenze anche Ryszard Kapuściński) ebbe a dire: «Trovo queste opere noiose come l’elenco del telefono».

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Alla tonalità grigio-chiara, Opałka era arrivato nel 1968, una volta toccato il milione (e quando in Polonia dilagava il giro di vite, o di repressione, del regime). In più, l’artista affiancava a ogni opera una foto di se stesso, sempre di faccia, e con la stessa camicia bianca: in quelle immagini cambia lui, perché il tempo, o l’età, remano tout court, ma l’impressione è coinvolgente: una specie di Dorian Gray che non fa scoperte drammatiche sul proprio invecchiamento, anche morale, e che quindi non ha bisogno di prendersela col quadro complessivo di sé, o della sua vita. A completamento, relativo, del lavoro quotidiano, dal 1972 Opałka registrava la sua voce che, in polacco, recitava i numeri rappresentati nell’ultima tela dipinta in quel giorno. I titoli dei quadri sono sempre Infinito. Prima del 1965 aveva fatto anche altro: nature morte, ritratti, paesaggi. E poi cartoline, poster, manifesti (il fratello maggiore, Henryk, è un noto grafico e litografo). Distrusse quasi tutto nel 1986, quando non gli fu permesso di portarle all’estero, in un colpo di coda di autoritarismo di un regime ormai quasi definitivamente condannato.

Opałka è un cognome che può avere di getto un suono misterico, e quando lui è morto qualche definizione a suo ricordo lo ha riassunto come una specie di sacerdote-filosofo; «scrutatore dell’infinito», artista «della metempsicosi», o «dell’energia universale». Secolarizzandolo, o portandolo più dentro alle cose (le espressioni dell’arte degli ultimi sessant’anni, il loro mercato e il loro successo per ora interminabile) si potrebbe avere questa immagine. Se l’arte contemporanea è ormai richiesta e comprata (a prezzi infiniti) anche come simbolo di status, Opałka – fuori dalle sue intenzioni – ha fatto diventare il tempo, o l’infinito, in una delle sue rappresentazioni più pure, un derivato simbolo di rappresentazione sociale. Un traguardo senz’altro di mercato – tre sue tele sono state battute e vendute da Christie’s per 130 milioni di dollari – ma anche un paradosso concettuale. Per un artista che, ogni giorno, per 46 anni, e con una visione del tutto originaria, ha riportato l’arte e la vita in un recinto sacro, che sembrava perduto.

Ruth Brinker

(1° maggio 1922 – 8 agosto 2011)

A San Francisco, a metà degli anni Ottanta, si era vista chiedere, da molti suoi amici «se fosse pazza». A mettere in piedi il Project Open Hand e a stare «con quelle persone». Aveva, allora, passato i 60 anni, e deciso di prendere di petto, da quella città, una tragedia americana. E mondiale. L’Aids.

Veniva da Hartford, South Dakota. Il suo cognome era Appel, si sarebbe sposata in California col signor Jack Brinker, avrebbe avuto una figlia, poi avrebbe divorziato, ma soprattutto aveva un carattere compassionevole e reattivo al peggio. Aveva molti amici a San Francisco, dove si era stabilita come se ci fosse nata, e, fra loro, c’era chi non aveva un quattrino.
La città, quel meraviglioso posto schiaffato, con la sua baia, sul Pacifico, aveva molti altri poveri che lei non conosceva, e per i quali avrebbe rappresentato un giro di boa. Contro la morte. Rappresentata, dall’inizio degli anni Ottanta, da una sindrome immunodeficiente, mai vista, e , allora, incurabile. Contro l’Aids, Ruth Brinker non solo si è fatta venire un’idea grandiosa (anche se non salvifica, perché non c’erano ancora gli antiretrovirali), ma ci ha aggiunto una constatazione umana tanto naturale, quanto omessa dalla maggioranza: l’Aids falciava tutti, ma c’erano persone che oltre a essere colpite, erano così senza un dollaro, o così allo stremo, da non poter neanche procurarsi del cibo per poter vivere gli ultimi tempi della propria esistenza. Morivano di fame, avendo l’Aids.

Un amico di Ruth era in quella condizione. Lei se ne era accorta, e ogni giorno, insieme a pochi altri, si dava il turno per portargli i pasti. Poi erano venute le vacanze, e quell’uomo era morto, perché lei era stata via per un poco, e gli altri se ne erano dimenticati. Vacanti, appunto. Il trauma, per Ruth, e il dolore, l’avrebbero portata allo scoperto, e accanita nel perfezionare l’organizzazione di quel tipo di assistenza.
Il Project Open Hand nasceva, per merito suo, nel 1985, a San Francisco: è stato il primo servizio sociale al mondo – una vera agenzia di soccorso diffuso – a occuparsi di malati di Aids che non avevano nessun mezzo per provvedere a se stessi.

Inizi complicati: nella ricerca dei fondi, soprattutto privati, e nel convincere amici, o solo conoscenti, timidamente disponibili, che non c’era «pericolo di contagio» in quel genere di soccorso. Nei primi tempi dell’iniziativa, Ruth Brinker (aveva mantenuto il nome del marito, nonostante il divorzio del 1965), aveva trovato poche persone, e quelle che la ascoltavano pensando di ritirarsi senza troppi dubbi, le sputavano sempre la stessa domanda: «Ma sei pazza? Non hai paura?». La risposta non era neanche coraggiosa, era spontanea e denotava una conoscenza del problema: «Non ho paura. Mai. E non sono pazza». Quella non-follia strutturale avrebbe coinvolto progressivamente il Food Service dell’amministrazione cittadina, e migliaia di volontari non pavidi e sempre più informati: sui particolari della sindrome (che dilagava), sull’avanzare della ricerca medica, sulla rete sanitaria di assistenza, sui numeri delle persone da soccorrere. Spesso difficili da trovare uno per uno, perché l’incrocio di povertà, di “vergogna”, di pubblica opinione convenzionata contro «la peste e gli appestati», li portavano a rintanarsi nell’anonimato di una morte in solitudine. E spesso per inedia, facilitata da un sistema immunitario ridotto a zero.

Ruth Brinker è morta a 89 anni, nell’epoca del cocktail di antiretrovirali che, dal 1996, salva milioni di sieropositivi e malati di Aids (li salva solo nei Paesi “avanzati”, dove il servizio sanitario pubblico fornisce gratuitamente quei farmaci, e dove ci si fa un mezzo baffo della voce in capitolo della Chiesa sui temi della sessualità protetta). È morta anche conoscendo gli ottimi numeri a cui è arrivata la sua creazione: il Project Open Hand dispone oggi di 5,6 milioni di dollari (donazioni private), di finanziamenti governativi, e distribuisce, ogni giorno, 2.600 pasti.

Harri Holkeri

(6 gennaio 1937 – 7 agosto 2011)

Ex primo ministro finlandese, e negoziatore internazionale di indubbie capacità. Figlio di un ufficiale di polizia, e laureato in Scienze politiche, riusciva a convincere, e poi a piacere, a un buon numero di europei in certe circostanze o rigidi, o pronti alla rissa: sovietici, inglesi, irlandesi (protestanti e cattolici), serbo-jugoslavi, kosovari. Era nato a Oripää, è morto a Helsinki, a 74 anni: un’età ancora primaverile, per un uomo di Stato, e un buon diplomatico, ancora utilizzabile nelle mediazioni del mondo.

La sua forza, anzi il suo onesto acume, stava nel movimento percettibile, ma sfumato, dal centro di una posizione a uno dei lati che, a seconda del problema da risolvere, gli sembrava il più ragionevole da avvicinare.
L’Unione Sovietica, costante vicino e guardiano della Finlandia, conosceva bene quella sua dote: con Harri Holkeri – eletto primo ministro conservatore, cioè di destra, nel 1987 (per il partito Kokoomus) – non ci sarebbero mai stati problemi, soprattutto in quel periodo complicatissimo di transizione per Mosca.

Perché Holkeri, una volta capo del governo, si era già piazzato al centro. E, nel governare quotidiano, addirittura a sinistra: salvando, per esempio, in toto, il welfare socialdemocratico. Lo apprezzava moltissimo Kofi Annan, segretario generale dell’Onu, che nel 2003 lo spediva, come suo inviato speciale, in uno dei centri più tragici dei Balcani, il Kosovo, per fare in modo che serbi e albanesi dell’ex provincia cominciassero a parlarsi direttamente. Cosa che le due parti fecero, anche se il Kosovo, con il sostegno americano, proclamerà la sua indipendenza cinque anni dopo.

Ma i contendenti storici che più devono all’acuto finlandese, sono tuttora gli inglesi e gli irlandesi. Cioè due parti che a Belfast, e nelle sei contee dell’Ulster sotto il controllo del Regno Unito, si sono detestati e massacrati per trent’anni. In un confronto ancestrale che sembrava interminabile, e che spesso, e male, è stato paragonato all’insolubile (per ora) guerra israelo-palestinese.
Il Belfast Agreement del 10 Aprile 1998, quel “Good Friday”, che metteva pace e ingegnava istituzioni locali rappresentative delle due parti, ha avuto una preparazione degna di un pour parler et traiter ottocentesco. Quando delle forme in regola e le scelte dei negoziatori servivano una sostanza difficile da far digerire. La Commissione internazionale di pace messa in piedi – con le buone intenzioni di inglesi e irlandesi – per sciogliere quel conflitto era formata da tre mediatori esterni: presidente, il signor George J. Mitchell, americano e senatore del Maine, poi il generale canadese John de Chastelain, e infine Harri Holkeri.

Diffidenze e veti preventivi: gli inglesi ponevano come precondizione il disarmo dell’Ira. Buon lavoro dei negoziatori: non ci fu disarmo, ma si ottenne l’impegno solenne dei repubblicani a non sparare e a non fare attentati durante le trattative. E Londra si adattava. O ancora, e qui entravano in ballo la Storia e le radici: i protestanti diffidavano del senatore Mitchell perché era integralmente cattolico, essendo di origine irlandese, e con una madre cristiano-maronita che veniva dal Libano. I cattolici sospettavano del generale de Chastelain, perché la sua fede era presbiteriana e, nato in Romania, era stato educato in Inghilterra e in Scozia, prima che la sua famiglia si trasferisse in Canada, nel 1954, con lui già diciassettenne.
Si salvava, ed emergeva, Holkeri, luterano, ma in quello snodo al massimo della neutralità confessionale. E al meglio di un metodo negoziale basato su queste tracce: piccoli passi per costruire fiducia, non pretendere subito dai contendenti colloqui diretti, non chiedere mai chi avesse sparato per primo. Che, oltre a tutto, nel caso nord-irlandese, era difficile da stabilire. Perché era diventata anche una guerra di rappresaglie. In generale, il suggerimento di Holkeri, era di «pensare di più e ascoltare di conseguenza». Valeva per tutti: aiutava i cattolici a sentirsi meno ferocemente etnici e perseguitati, e diminuiva nei protestanti l’orgoglio di appartenere alla maggioranza e alla Corona. E fu, in definitiva, il marchio del successo. Nei pour parler privati, alcuni testimoni hanno raccontato, in memoria di Holkeri, della sua «infinita pazienza» nel giostrarsi, sfumato, dal centro alle parti, e nell’interrompere, ogni tanto, quella ginnastica negoziale, con molto whisky (o whiskey), da tutti condiviso.
 

Il quadro di questa settimana: «The Next Day», del pittore statunitense Michael Klein, olio su tela di lino, 2008

Avvertenza ai lettori: Per due settimane Se ne sono andati chiude per ferie. La rubrica tornerà domenica 11 settembre. Domenica 26 agosto e domenica 4 settembre sarà sostituita da una riproposizione in due puntate delle 80 vite apparse dal 31 gennaio a oggi.

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