Cappuccio e Brioche, ogni mattino diciamo che non siamo islamici

Cappuccio e Brioche, ogni mattino diciamo che non siamo islamici

È pressocché impossibile riprodurre l’orrore, l’angoscia e lo smarrimento provocato in quel sereno giorno di fine estate dall’attacco terroristico alle Twin Towers. La forza sconvolgente delle immagini (sembrava un film dagli effetti speciali, ma era una tremenda e inedita realtà) interrogava all’improvviso sulla fragilità messa a nudo della sola superpotenza rimasta, sulla patetica impotenza dell’Occidente e delle sue società affluenti, sullo scoprirsi sconcertati e indifesi di fronte all’azione di chi aveva fatto della propria morte un’arma micidiale, devastante e non contrastabile.

Il bisogno di un “Perché?” fu allora aspro e insopprimibile: e capì solo chi trovò una risposta persuasiva e insieme scomoda nei meandri della Storia (anche se la cultura dominante recalcitrò a lungo nel riconoscere l’unico senso possibile, che pure metteva in crisi alla radice la favola buonista del “politically correct” e della “fine della storia”).

L’11 settembre non era stato scelto a caso: nel cupo simbolismo della violenza, richiamava la data emblematica nella quale l’Islam aveva raggiunto il massimo della sua espansione militare e politica ed era stato ad un passo dall’imporsi definitivamente. Era stato nel 1683, quando le preponderanti armate musulmane che avevano preso d’assedio Vienna, la capitale dell’impero asburgico, si preparavano all’ultimo assalto. Presa Vienna, avrebbero dilagato in tutta Europa, rispondendo finalmente all’obiettivo fissato dal Profeta Maometto.

Furono fortunosamente fermati (anche se le cancellerie europee consideravano la partita ormai perduta) e da lì cominciò un progressivo e inarrestabile arretramento geografico, economico e militare, giunto fino alla colonizzazione del XX secolo.

Tuttavia nelle università egiziane e nei circoli intellettuali arabi si fece strada (soprattutto dopo l’abolizione del Califfato voluta dal turco Ataturk nel 1924) il sogno di una riconquista del mondo, accarezzata in particolare da quando la benedizione di Allah aveva portato ai suoi figli il dono del petrolio. È in questo “humus culturale” che matura in lenta incubazione l’estremismo radicale fino all’esplosione del terrorismo internazionale, a lungo alimentato da nuovi adepti pronti alle azioni suicide.

Ma chi li fermò a Vienna? Il miracolo di una scalcagnata coalizione cristiana, con forze grandemente inferiori, formata da asburgici, ucraini e principi tedeschi cattolici e protestanti e guidata dall’abilità in battaglia del re polacco (e dei suoi ussari “alati”) Giovanni Sobieski. Nel corso dell’assedio Vienna era rimasta senza sale. E i suoi panettieri con il poco che avevano si inventarono una sorta di pan dolce, al quale diedero la caratteristica forma a mezzaluna, in segno di sfida verso le bandiere verdi del Profeta che garrivano trionfanti al di là delle mura.

E così le brioches, che subito piacquero, stettero a ricordare l’inattesa vittoria. Le brioches quando non c’era più pane. E forse acquista un altro significato quella frase di un secolo dopo dell’infelice Maria Antonietta (una Absurgo, cresciuta a Vienna nel mito di quella epopea) che da regina di Francia viene tutt’ora righigliottinata dai giacobini di tutte le epoche come simbolo dell’insensibilità dei sovrani verso la fame del popolo.

A Vienna, allora, oltre alle brioches si “inventò” anche il cappuccino. Infatti nel campo ottomano si trovarono diecimila sacchi di caffè, già tostato. Grazie a un commerciante armeno la bevanda diventò una moda diffusa. Ma, troppo forte e amara, fu subito corretta con il latte, assumendo il colore del saio del frate taumaturgo (un cappuccino appunto) Marco d’Aviano, considerato il vero salvatore, visto che si era speso per anni in tutte le corti europee per persuadere alla coalizione difensiva.

Piaccia o non piaccia, così perfino la colazione del mattino (cappuccino e brioches) ci interpella sull’Islam. E forse, se invece di crogiolarsi in una garrula smemoratezza, si fosse umilmente consapevoli di sé e da dove si viene, sarebbe certamente più fecondo e produttivo il dialogo e l’incontro con una cultura antica e diversa, che esprime la sua identità grazie anche a una rocciosa fissità della memoria.

Certo, Osama Bin Laden è morto, raggiunto dalla sbrigativa giustizia del paese dei cow-boy (la vendetta però è firmata da Obama, non da Bush). Ma il sottile velo di inquietudine, quella cicatrice dell’anima che da dieci anni in qualche modo in sottofondo ci tormenta non è ancora rimarginata. Ci sono stati migliaia di attentati suicidi in tante capitali del mondo: e soprattutto quell’ “humus culturale” che è stato terreno di coltura di Al Qaeda è ben lungi dall’aver compiuto una definitiva evoluzione verso la pacifica e solidale accettazione dell’altro.

Qualche preoccupazione suscita ad esempio la difficoltà del processo di integrazione degli immigrati islamici in molte metropoli europee. L’accoglienza è complicata dal fatto che la multiforme realtà islamica (unica tra tutte le fedi) non firma intese con lo Stato laico. Così pure dal problema non piccolo che gli immigrati non si organizzano secondo istituzioni “laiche” (sindacati, associazioni sociali o centri culturali civili) ma fanno esclusivamente riferimento ai capi religiosi. La commistione tra religione e politica (da cui anche i cristiani hanno faticosamente impiegato secoli a liberarsi) è per sua natura foriera di conflitti. E forse aiutare chi arriva a separare la propria vita civile da quella religiosa e a conquistare davvero la piena “laicità” uguale per tutti è l’unica sincera speranza di poter consegnare quel tremendo 11 settembre all’album della Storia.

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