L’agente Mormora“Facciamo la festa a Silvio”, ma in Piazza Affari vanno in trenta

“Facciamo la festa a Silvio”, ma in Piazza Affari vanno in trenta

Gli indignados italiani e quella passione per il flop. Sarebbe dovuta finire a mezzanotte, ma alle 22 lo sparuto gruppetto di contestatori ha preferito battere la ritirata. Una bambola gonfiabile e qualche maschera restano sul campo, assieme ad un water di cartone con le facce dei fedelissimi del Cav, che qui non esitano a definire “servi”: quella che si annunciava come la controfesta al premier – che proprio ieri raggiungeva la benemerita soglia dei 75 anni – non verrà annoverata tra le maggiori proteste di piazza di queste settimane. «Un messaggio d’augurio al priapo d’Italia», avevano promesso.

Qualcosa non ha funzionato. Già su facebook l’evento non aveva promesso sfracelli, avendo raccolto attorno a sè circa 850 internauti. Appuntamento alle 21.00 in piazza Affari, all’ombra di L.O.V.E., il mastodontico dito medio di Cattelan. Poi, per ragioni di ordine pubblico (un applauso al dirigente della questura che considera disordinati 40 milanesi in ordine sparso), la manifestazione si sposta in largo Cairoli. Arrivano in metro o in bici, fieri della propria superiorità vettoriale. L’idea sarebbe questa: formare una torta umana, dalle proporzioni imbarazzanti, condita da 75 candeline umane. Uomini e donne in piedi, col dito medio rivolto al cielo, e – ovvio – a Palazzo Grazioli. Soffia il vento e si esprime un desiderio. Chiariscono: «Giusto perché non si equivochi: questa iniziativa ha il sorriso sulle labbra. Ma una rabbia da bufali nelle vene».

Nulla, la torta viene malissimo. Mancano le candeline. Non c’è manco l’ombra delle settantacinque persone e tocca lavorare di fantasia. Pensare che le adesioni online erano almeno dieci volte maggiori (ne deriva una inedita forma di protesta in scala 1:10), e ciò la dice lunga sul pragmatismo dei ribelli italici. Dopo un altro flop di quelli che resteranno negli annali delle occasioni perse – documentato da Linkiesta, oggi va in onda la replica. Quella volta si volevano contestare i mercati finanziari, davanti la borsa, e paradossalmente i giornalisti erano più dei piqueteros nostrani. Ieri è andata ancora peggio, tant’è che pure i cronisti hanno cambiato strada in fretta, preoccupati di diversi sorbire il repertorio classico delle paternali sulle serate galanti di villa San Martino. Nessun big presente, e si capisce perché.

Una serata un po’ così, per gli indignados di Porta Vittoria. Qualcuno – anche trai giornalisti “d’area” (sentite qui cosa avevano scritto: «Domani Silvietto compie 75 anni: facciamogli la festa. Alle 21 in Largo Cairoli, dalla parte di via Beltrame, con un pensiero per il nostro amato Premier. Chissà che tanti pensieri messi insieme non lo convincano a farci il regalo più grande: le dimissioni») – aveva raccontato che, di nuovo, da Milano sarebbe partita la scossa al Paese sonnecchiante e che la spallata di piazza al presidente del Consiglio sarebbe stata decisiva. Niente di tutto ciò, in serata. E – per pietà – ci si ritrova costretti a ripiegare sulla goliardia. Mattia, universitario fuoricorso, issa verso il cielo una bambola gonfiabile e la conduce con sé, scagliandola contro i finestrini attoniti del tram in transito da Largo Cairoli (video su fb).

Qualcuno urla che «la patonza dovrebbe girare un po’ di più», grandi sorrisi e sghignazzi. Una telecamera e qualche fotografo, giovanotti intristiti che prorompono in un «Più bevo e più sete me vien», spuntano le bottiglie di vino (che si provi già a dimenticare l’insuccesso?). «Prima lo chiamate Cavaliere e poi vi lamentate se cavalca», questi i livelli più alti mai raggiunti. Il senso di impotenza è condiviso e plateale, «avremmo dovuto organizzarla meglio, l’idea era tanto carina». «Il guaio è che ormai di ‘ste robe ce n’è una al giorno, e la gente mica gliene importa. Ha altre cose cui pensare». «Ma no, sono i giornali che ne hanno parlato poco. Poi a Milano, figurati». «Che c’entra Milano? Guarda che abbiamo vinto alle comunali con Pisapia, Ti ricordi?». «È che, lo so, ma a Milano stanno ancora tutti troppo bene».
 

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