Per i “sindaci-sceriffi” nati grazie ai nuovi poteri che il decreto n°92 del maggio 2008 conferiva loro, il momento non è dei migliori. E la causa non si può certo imputare alla scomparsa del padre di Tex, Sergio Bonelli. Il decreto, poi convertito nella legge 1252008 che fa parte del “pacchetto sicurezza”, in tre anni di vita ha moltiplicato le ordinanze comunali, concedendo ai sindaci la possibilità di legiferare in delega allo Stato su questioni “anche contingibili ed urgenti” di sicurezza, decoro, viabilità e danneggiamento del bene pubblico. Ma nell’ultimo anno, quella stessa legge ha più volte ricevuto la bocciatura della Corte Costituzionale. La quale, chiamata in causa da associazioni e opposizioni, si è pronunciata più volte contro alcuni dei suoi articoli.
La legge 125 è stata in molte occasioni uno strumento utile per intervenire laddove lo Stato non riusciva ad essere efficace, specie in materia di ordine pubblico nei piccoli centri. Ma qualche volta è stata utilizzata dalle amministrazioni locali per deliberare a svantaggio di una parte dei loro cittadini. Discriminandola cioè in base allo status della persona: età, sesso, condizione sociale. Oppure, più sovente, a causa della provenienza e dell’etnia dei diretti interessati. Ed è proprio quando i numerosi ricorsi contro le ordinanze dei “sindaci-sceriffi” hanno cominciato ad arrivare davanti al Tar e da qui alla Corte Costituzionale, che il pacchetto sicurezza ha cominciato ad accusare i primi colpi. Nel giugno del 2010, la Corte Costituzionale si è pronunciata sul reato di immigrazione irregolare dichiarando illegittima «l’aggravante per clandestinità», contenuta propiro nella legge 125. Voluta fortemente dalla Lega, l’aggravante prevedeva un aumento di un terzo della pena qualora chi commettesse il reato fosse un immigrato irregolare.
Ma i guai per la legge del “pacchetto sicurezza” non finiscono qui. All’inizio dello scorso aprile, la Consulta ribadisce il concetto. Dopo il ricorso al Tar del Veneto dell’associazione Razzismo Stop contro l’ordinanza anti-accattonaggio del sindaco di Selvazzano Dentro, la vertenza finisce di nuovo sul tavolo della Consulta. Che questa volta è chiarissima: «Le ordinanze dei sindaci – si legge nella sentenza n°155 – così come previste dal “pacchetto sicurezza” incidono sulla sfera generale di libertà dei singoli e delle comunità amministrate, ponendo prescrizioni di comportamento, divieti, obblighi di fare e di non fare, che, pur indirizzati alla tutela di beni pubblici importanti, impongono comunque, in maggiore o minore misura, restrizioni ai soggetti considerati». E secondo l’articolo 23 della Costituzione, per la Corte, il “pacchetto sicurezza” viola la riserva di legge che consentirebbe alle amministrazioni locali di imporre determinati comportamenti. I quali, in via generale, possono solo sottostare agli obblighi dalla legge nazionale.
Ma c’è di più. Obbligare ad alcuni comportamenti piuttosto che ad altri, viene considerato dalla Consulta un atteggiamento che lede l’articolo 3 della Costituzione, che prevede l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Le ordinanze dei “sindaci-sceriffi”, secondo la Corte Costituzionale, generano un caos legislativo notevole, perché possono essere valide o non valide in base alla competenza territoriale del sindaco, creando così «una disparità di trattamento non riconducibile ad una matrice legislativa unitaria». La sentenza 155 della Corte Costituzionale è stata salutata da molti come il tramonto dell’era del “sindaci sceriffi”, e la fine di quella riserva di legge, fortemente voluto dalla Lega, che ampliava il potere dei borgomastri sui propri cittadini, di fatto incrementando la già voluminosa legislazione italiana. Con buona pace del “semplificatore” ministro Roberto Calderoli.
Dal maggio del 2008 al marzo del 2009, la legge 125 ha prodotto 600 ordinanze comunali, molte delle quali hanno dato origine a numerosi ricorsi e contenziosi amministrativi. Secondo uno studio dell’Anci (l’Associazione nazionale dei comuni italiani), in poco meno di un anno 318 comuni avevano già legiferato in delega al pacchetto sicurezza, il 4% del totale. Ad indossare la stella da Texas ranger, come le cronache hanno ampiamente mostrato, sono stati soprattutto i sindaci del Nord: ben il 66,7% delle nuove ordinanze è scaturito dalle amministrazioni settentrionali, seguite dall’11,7% del Centro e il 14,9% del Sud. A guidare la classifica è la Lombardia, con 144 delibere distribuite su 82 comuni, il 5,3% del totale. A ruota il Veneto con 77 ordinanze su 50 comuni. Un dato interessante perché la Regione del leone alato, con 581 comuni, stabilisce un record. Qui, quasi un comune su 10 (il 9%) ha attivato un regolamento extra sulla base della legge del ministero dell’Interno.
Classificando le ordinanze in base alla tipologia di intervento, la lotta alla prostituzione risulta essere l’ambito in cui di più si sono contati più provvedimenti, il 16% del totale. Seguono gli atti comunali volti a limitare o proibire il consumo di alcolici in determinate aree (13%), le misure contro il vandalismo e il danneggiamento dei beni pubblici (10%) e quelle per sanzionare l’accattonaggio molesto (8,4%). Ma i sindaci, in generale, se la prendono soprattutto con cibi e bevande. Se si sommano i provvedimenti contro l’alcool e quelli che hanno a che fare con la proibizione di vendita di alimenti e beveraggi (6,8%), si ottiene che un quinto delle ordinanze è indirizzato a regolare la pancia degli italiani.
Ormai celebre è l’epopea del kebab. Cibo contro il quale le pallottole degli “amministratori sceriffi” hanno sprecato i colpi. Non c’è centro storico nella Penisola che non abbia paventato, promesso, minacciato o attuato, norme volte a limitare la “coloritura etnica” del Paese della pizza. Se molte volte gli sgomberi dei kebabbari sono restati soltanto nelle fantasie dei più intransigenti, a volte hanno modificato davvero il menù sotto le torri comunali. A Lucca, nel 2009, la giunta a maggioranza Pdl ha espressamente proibito l’apertura di locali, bar e ristoranti etnici, vietando «l’attivazione di esercizi di somministrazione la cui attività sia riconducibile ad etnie diverse». Così come a Cittadella, dal 5 agosto di quest’anno, il sindaco ha deciso che assieme ai sexy shop e ai circoli privati per poker e slot machine, fossero allontanate dal centro tutte quelle attività che servono kebab ed altre simili pietanze da asporto.
Lo «stress culturale», d’altra parte, come lo studio dell’Anci etichetta il rapido aumento degli stranieri nel nostro Paese, è uno dei fattori che hanno creato più ansia nelle giunte comunali, colpendo in maniera pesante quella “percezione di sicurezza” che il decreto di Maroni voleva ripristinare. Molte volte, così, ad essere discriminati dalle ordinanze comunali sono stati gli stranieri, specie in concomitanza ad una giunta “verde”, o ad un sindaco leghista. Famoso è il caso di Alzano Lombardo, in provincia di Bergamo, comune di 13 mila anime con il 14% di residenti immigrati. Per «non creare ghetti», come disse il sindaco leghista Roberto Anelli, la giunta dispose che i parcheggi del centro potessero essere concessi soltanto a coppie di cui uno de membre doveva essere italiano ab origine, cioè dalla nascita. Non solo, le coppie ricevevano il parcheggio soltanto se sposate e residenti ad Alzano da almeno tre anni. Anelli dimenticò soltanto di indicare l’italianità delle auto da parcheggiare. Oppure l’ordinanza anti-borsone di Venezia. A giugno del 2008, dal palazzo comunale il “doge” Massimo Cacciari firmava l’ordinanza anti-borsoni, con l’obbiettivo di colpire i molti stranieri venditori abusivi di materiale taroccato. In città, secondo la delibera, era proibito camminare con capienti sacche dal contenuto sospetto. Se il Tar non avesse annullato tutto entro pochi mesi, chissà che anche Babbo Natale non avrebbe potuto essere sanzionato.
Ora che la sentenza della Corte Costituzionale ha limitato la possibilità di emettere ordinanze comunali, restano tuttavia le cronache di centinaia di delibere e ordinanze dalla vita breve e travagliata. Una proliferazione di leggi e regolamenti in grado però di aumentare la mole di carte bollate, impegnando spesso il Tar e la Consulta a valutarne di volta in volta la costituzionalità.
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