Per un incredibile colpo di fortuna (ma qualcuno potrebbe non pensarla così, ad esempio i proprietari fondiari) il PGT ovvero il Piano di Governo del Territorio di Milano, elaborato, adottato e approvato dalla Giunta Moratti, alla fine non è ancora entrato in vigore. Ma quel piano rappresentava solo l’ultimo atto di una lunga serie di provvedimenti urbanistici nati all’insegna di una linea che potremmo chiamare del “si alla valorizzazione – lo sviluppo forse”. Grandi profitti, cioè, sulla compravendita di aree, realizzati al variare delle regole di intervento. E invece profitti più incerti quando si passa alla più faticosa, impegnativa e meno remunerativa fase della realizzazione. In che modo questo può avvenire?
Valorizzare è facile: basta aumentare le aree edificabili, mettere indici di costruzione più alti, meno servizi, oneri di urbanizzazione comunque insufficienti alle opere pubbliche necessarie e il gioco è fatto. Questo oggi accade con i numeri impressionanti dell’ultimo PGT: 60 milioni di metri cubi teorici in più a fronte dei circa 200 esistenti (senza forse una corrispondente domanda di mercato) e dieci miliardi di euro che mancano al Comune per le infrastrutture da realizzare. Investire, metterci le risorse, costruire e vendere un po’ più difficile.
Tutto ciò, finora, è servito a far ripartire molta edilizia, anche se forse è stato realizzato poco di veramente importante e significativo per la città: dov’è la grande biblioteca? Che infrastrutture importanti sono state realizzate? Ma adesso il sistema sembra essere arrivato al limite. Basta fare un giretto nei fangosi cantieri interrotti di Santa Giulia (l’intervento dalle plusvalenze milionarie che doveva rappresentare la “Milano del futuro”) o si va in giro nell’hinterland a vedere quante sono le gru ferme giusto alla prima terra smossa, non è difficile farsi un’idea della bolla immobiliare che abbiamo fortunatamente evitato. Gli “esiti non positivi” di questa politica sono invece un po’ meno visibili se si pensa ai capitali finanziari immobilizzati dalle banche in progetti mal congegnati che promettevano però redditività elevatissime. E, si spera, questi effetti non siano mai visibili negli effetti che avrebbero avuto sul traffico cittadino o nella distruzione di quel che resta del tessuto storico minore.
Ma, scampato il pericolo, è anche l’ora di guardare avanti. Quali potrebbero essere adesso i punti di riferimento e alcuni principi da perseguire? Ecco qualche possibile idea.
1) Cambiamento e conservazione. Le città – Milano meno di tutte fa eccezione – vivono di un sottile equilibrio fra novità e continuità. Da un certo punto di vista, la città fisica (le strade, le piazze, i palazzi) ha più o meno le stesse caratteristiche dal tempo dei Romani, inutile pensare a qualcosa di completamente nuovo. Da un altro punto di vista, tutto cambia e la città è stata e resta il più formidabile incubatore di novità. Ed è inevitabile se la si vuole governare: rivoluzioni radicali non funzionano, ma neanche l’immobilismo. Usando un po’ di fantasia, amministrare una città è quindi un po’ come governare una vecchia barca, che non può fare brusche virate senza sfasciarsi tutta, ma richiede invece manutenzioni profonde e cambi di rotta decisi, ma realizzati con misura e costanza nel tempo.
2) Milano capitale economica. In cosa si esprime maggiormente questa innovazione urbana? Forse si vive a Milano per la sua bellezza (anche se non è poi così brutta) e poi vi si cerca un lavoro? O invece si viene in città per lavorare, per incontrare altre persone capaci, per conoscere nuove cose e iniziative interessanti, e per questo si decide di abitarci? Bisognerebbe allora ribaltare il punto di vista di tante politiche urbanistiche basate sulla residenza; che certo è importante, ma forse più importanti sono le attività per cui si formano e crescono città come questa: il commercio, la produzione, la finanza, la cultura, le istituzioni. E forse sarebbe interessante domandarsi anche in che direzione si stia andando, se saranno la cultura, le innovazioni scientifiche e tecnologiche, le produzioni immateriali e quelle ad alto valore aggiunto a caratterizzare in futuro la città.
3) Sì alla mixité urbana. Perché Milano è una città profondamente mista. Mista nei settori economici, nella dimensione di impresa, nel tipo di attività produttive; ma anche mista nella sua composizione sociale e in quella fisica (edifici di epoche, dimensioni e funzioni differenti che si affacciano sulla stessa via). E questo è un valore da preservare e rinnovare, perché è proprio qui che nascono le sue attività più note e rappresentative (la moda, il design, l’editoria, che a ben guardare sono una mescolanza di creatività, commercio, finanza e produzione di alto livello).
4) Allargare il punto di vista. Qual è l’orizzonte spaziale corretto in cui collocare la città? Milano, lo si dice da più parti, non si ferma ai suoi limiti amministrativi (dove inevitabilmente si ferma l’efficacia dell’azione formale delle sue istituzioni, non certo quella reale). Ma Milano non è solo il centro di una delle aree metropolitane più vivaci o il capoluogo di una regione policentrica fra le più ricche; e non è solo la capitale del Nord Italia, o la porta di accesso dall’Europa al sistema paese. È anche un possibile punto di contatto fra l’Europa del Nord e l’Europa del Sud, con il Mediterraneo in grande evoluzione. Ed è anche una delle poche città europee di possibile rango internazionale, non come le “città mondiali” tipo Londra o Parigi, ma comunque in buona posizione.
5) No alle rendite fondiarie, sì allo sviluppo. Ora chiediamoci: Milano ha servizi adeguati a questo suo ruolo? Non solo musei, biblioteche o stadi di atletica. Ma anche banalmente piscine, asili, parcheggi, sistemi di mobilità decenti. Il ceto produttivo altamente qualificato che speriamo abiterà in città, preferirà vivere in una città soffocata dal traffico e nella selva di grattacieli periferici ipotizzati dal PGT della Moratti, o in una città dall’immagine europea, in una città che senza le risorse ambientali naturali che caratterizzano quasi tutte le altre (il fiume, il lago, il mare, la collina) sappia almeno valorizzare ed espandere quel poco di “natura artificiale” (i navigli, la darsena, i parchi) che si è saputa dare?
Ma, tornando al principio del ragionamento, che senso ha avuto nel PGT ridurre al minimo i servizi, gli oneri di urbanizzazione, i contributi da richiedere fin dall’inizio nei processi di valorizzazione fondiaria (e non da chiedere dopo, nel corso della negoziazione urbanistica per il progetto definitivo, cosa che punisce solo chi si è impegnato in un processo di trasformazione reale), se non quello di trasferire le risorse generate dalla città di tutti ai terreni dei privati? Creando cioè plusvalenze elevatissime alla sola proprietà dei terreni e mettendo in difficoltà le operazioni di trasformazione reale della città? Forse in questa situazione anche un ragionamento su un più corretto bilanciamento fra capitale sociale e beni privati potrebbe servire.
* Urbanista e Architetto