Obama ha un problema: crea occupazione, ma in Cina

Obama ha un problema: crea occupazione, ma in Cina

Barack Obama lancia la sua sfida ai repubblicani e rende esplicita la sua strategia elettorale. Nel suo discorso alle Camere ha proposto un nuovo stimolo economico da 447 miliardi di dollari che da una parte prevede investimenti pubblici (strade, scuole, ponti…) e dall’altra una rilevante riduzione del prelievo fiscale dalle buste paga. «La proposta del presidente merita di essere presa in considerazione», ha detto John Boehner, speaker repubblicano alla Camera, una reazione insolitamente moderata per un leader che è spesso caustico nei confronti di Obama, e che in questa occasione sembra essere stato preso in contropiede.

Nel momento più grave della crisi economica, con la disoccupazione al 9,1% e 14 milioni di americani in cerca di un lavoro, Obama sfida i repubblicani sul loro terreno. Propone di tagliare le tasse alla classe media (non ai ricchi) e di investire il denaro risparmiato in lavori pubblici per creare posti di lavoro e migliorare le infrastrutture del paese. Se i repubblicani daranno il via libera al suo piano avrà ottenuto un doppio successo: da una parte avrà dimostrato di essere capace di dominare un parlamento ideologicamente diviso, dall’altra avrà varato un pacchetto di investimenti in grado di ottenere, nell’anno delle elezioni, concreti effetti sull’occupazione. Al contrario, se i repubblicani rifiuteranno le sue proposte, Obama potrà ben dire agli elettori che il parlamento è bloccato da un manipolo di estremisti del Tea Party, che ormai controllano il partito repubblicano.

Gli analisti politici hanno accolto positivamente la mossa di Obama, giudicata politicamente efficace, incisiva, pragmatica. Ma forse è proprio l’eccesso di pragmatismo il tallone d’Achille di Obama. Di fronte alla crisi che sta azzoppando il mondo occidentale, il presidente non riesce a formulare una visione strategica, un’idea chiave in grado di mobilitare l’elettorato. I capitali globalizzati si spostano verso i paesi a più alta crescita. I posti di lavoro migrano verso i paesi del Terzo Mondo e sono falcidiati da un’inarrestabile innovazione tecnologica. Di fronte al sovvertimento del vecchio mondo, Obama non va oltre la difesa del vecchio welfare, il pannicello caldo degli investimenti pubblici come risposta keynesiana alla crisi, l’investimento in energie rinnovabili per diminuire la dipendenza dal petrolio. Si tratta di ricette che mostrano la corda: nei primi tre anni di presidenza, quasi 800 miliardi di dollari di investimenti pubblici sono finiti nella voragine della crisi senza incidere in modo sensibile sul tasso di disoccupazione. E il sogno di creare occupazione locale con il solare e il fotovoltaico si è rivelato, appunto, un sogno, perché incentivando le energie alternative – certo un obiettivo lodevole da un punto vista ecologico – si finisce con il favorire le aziende cinesi. La Solyndra, l’azienda su cui l’amministrazione Obama aveva investito 528 milioni di dollari di incentivi pubblici, ha appena chiesto lo stato di bancarotta e si è appreso che i pannelli da lei prodotti costano il doppio di quelli di produzione cinese. Si tratta di un colpo durissimo alla politica energetica del presidente, che ha investito venti miliardi di dollari in nuovi progetti energetici che stanno creando occupazione non negli Stati Uniti, bensì sulla sponda opposta del Pacifico.

L’inefficacia della strategia economica sta logorando l’immagine del presidente, il cui indice di gradimento è ormai al 43%, in picchiata soprattutto tra i giovani. Questo non significa che Obama perderà le elezioni, ma che in questo momento le sue speranza di vittoria sono più fondate sull’ineleggibilità degli avversari che sulla sua reale credibilità. Il candidato in testa ai sondaggi repubblicani è Rick Perry, governatore del Texas, che sostiene le teorie creazioniste, afferma che i dati sul riscaldamento globale sono stati manipolati dagli scienziati, e punta su un radicale abbattimento delle tasse e del welfare per la protezione dei poveri e degli anziani.

Se il candidato repubblicano sarà un radicale come Perry, gradito al Tea Party, è possibile che alla fine la moderazione di Obama finirà con il prevalere, specie se l’economia mostrerà qualche segno di miglioramento e il tasso di disoccupazione comincerà a scendere. Ma questa vittoria non fermerà l’onda lunga che si sta manifestando nell’elettorato di destra negli Usa.

Per certi versi sembra di rivivere l’inizio degli anni Sessanta, quando l’estremista repubblicano Barry Goldwater si scontrò con Lindon Johnson. Allora i democratici vinsero a mani basse. Ma non si resero conto che quel candidato di destra, che chiedeva un drastico ridimensionamento del ruolo e dei poteri dello stato centrale, stava comunque testardamente spargendo i semi di una cultura che pochi anni dopo avrebbero fatto sbocciare il reaganismo. Ma allora, in una fase ancora espansiva della società e del capitalismo americano, i democratici erano ancora in grado di scaldare i cuori dell’elettorato. Oggi i progressisti sembrano aver perso quella capacità mentre gli estremisti del Tea Party, nei loro sogni “ultralibertarian”, vedono la loro influenza crescere.

D’altra parte non si tratta solo di un problema di Obama. La globalizzazione sta mettendo in difficoltà la sinistra di tutti i paesi avanzati, che ovunque sembrano solo in grado di recitare vecchie ricette, logorate dalla contraddizione lacerante costituita dallo statico localismo della manodopera e dal dinamico globalismo dei capitali. Difficile prevedere che il pragmatismo di Obama e la sua innata astuzia politica, alla lunga riescano a fermare l’ondata di destra che sta montando. 

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