Mario Monti, presidente dell’Università Bocconi, lo dice da subito: «De Benedetti ed il padre sono ingegneri ed hanno studiato a Torino, mentre il nostro è un ateneo commerciale milanese». Allora: cosa ci fa il patron del gruppo l’Espresso in cattedra? Tutto merito dell’“imprenditorialità”, oggetto della Cattedra ‘Rodolfo Debenedetti’ in Entrepreneurship, ufficialmente istituita poche ore fa con la firma di un accordo tra Carlo De Benedetti e Bruno Pavesi, consigliere delegato della Bocconi. È l’occasione per l’editore di profondere in lodi sperticatissime per il presidente Monti – da sempre candidato in pectore alla guida del Paese (ed oggi forse ancora di più) – che sorride, non commenta e schiva i microfoni insinuanti e anzi si schermisce.
«Qui ritrovo valori e comportamenti che mi venivano indicati da mio padre. Vorrei che la Bocconi facesse lo stesso con altri giovani, per questo intendo mettere a disposizione questa somma». L’ingegnere arriva con qualche minuto di ritardo, è subito attorniato da una ressa di obiettivi e taccuini. Non si concede: in una nuova ala dell’ateneo di via Sarfatti lo attendono Mario Monti ed il rettore Guido Tabellini per l’attesissima conferenza stampa. La notizia è la seguente: 3 milioni di euro dalle tasche dell’ingegnere alla cassaforte dell’accademia per insegnare ad i giovani a fare impresa. Carlo De Benedetti racconta la storia del genitore, la laurea al Politecnico nel 1919, l’esperienza tedesca e la costruzione del gruppo editoriale di cui oggi il figlio è presidente. Si vanta di quella che definisce la prima occasione di «venture capital, visto che mio padre ci metteva il lavoro, i tedeschi portavano i brevetti e le banche investivano il denaro». Non glissa sui due fallimenti, quelli consecutivi del 1924 e 1925, quando pure «ripartì con gli stessi soci e lo stesso entusiasmo». Si alternano poi, con una certa retorica da “presidente operaio” le rivelazioni sulla «nostra fabbrica distrutta dalla guerra nell’agosto del 1945», sulla ricostruzione a mani nude con «mattoni e cemento». E arriva anche il momento commozione, in platea ci sono i parenti stretti – spicca la chioma del fratello dal cognome diverso, il senatore Franco, i figli e le nipoti su tacchi vertiginosi. «Un giorno fui chiamato da mio padre che mi disse: “Ho scoperto che, a fare questo lavoro, sei più bravo di me. Ecco, da domani lo farai tu». Esalta l’aneddoto – e si scusa per lo “sgarbo geografico” – come un gesto tipicamente figlio di una concezione della laboriosità tutta «torinese».
«Sbagliare e ripartire: questo ho imparato da chi mi ha tirato su». I cronisti sono distratti, svogliatamente annotano qualche passaggio sui taccuini. «Tra i doveri di chi, come me, ha avuto più fortuna di altri ed oggi ha più possibilità economiche di altri, c’è anche quello di contribuire all’aumento del sapere. Sento di dovere moltissimo, anzi tutto, a mio padre. I miei successi sono il frutto di comportanti ereditati da lui che mi ha spinto a fare l’imprenditore, il più bel mestiere del mondo. Impazziscono i flash, tocca al presidente Monti: «Ci lavoriamo da anni, siamo fieri di questo un atto filantropico, di mecenatismo o di generosità – definitelo come volete: ha per noi grande significato, proprio perché del tutto inedito qui in Italia ma usuale in America». Mario Monti sottolinea quanto «sia impensabile che chi sceglie questo tipo di donazioni lo faccia con lo scopo di condizionare l’attività dell’ateneo». E conclude: «Siamo sicuri che il fund raising sia compatibile con l’indipendenza che da sempre ci contraddistingue». Messaggio chiaro e forte, infatti da tempo l’università si è aperta alla collaborazione con importanti imprese per l’istituzione di cattedre dedicate, finalizzate al sostegno di attività di ricerca. Ci sono banche come Intesa (cattedra in Economics of financial Regulation affidata a Donato Masciandaro), Mediolanum (cattedra in Service e Customer Science, retta da Enrico Valdani), Deutsche (Quantitative Finance and Asset Pricing, ci insegna Carlo Favero) e Nomura (con la cattedra di Corporate Finance a Maurizio Dallocchio). Nessuno dei giornalisti presenti si domanda però come vengano scelti i chiarissimi docenti nell’assegnazione delle prestigiose cattedre.
A questo punto si consuma un piccolo giallo. La cartella stampa contiene il discorso lungo nove cartelle che avrebbe dovuto tenere l’ingegnere De Benedetti – il quale invece ha preferito andare a braccio e lasciare ai cronisti il compito di copincollare le citazioni (quasi agiografiche, nell’eccesso di zelo del ghost writer) di Schumpeter e Musil e Bagehot e Melchiorre Gioja sul ruolo dell’imprenditore. Nella prolusione che non ha mai tenuto, De Benedetti esalta Steve Jobs («riedizione in maglione e scarpe da ginnastica di quei grandi borghesi innovatori che trasformavano la realtà con la tecnologia delle macchine?»), con immancabile richiamo alla follia. Aggiunge il benefattore: «Ci troviamo in un’istituzione che rappresenta un luogo privilegiato, una punta d’eccellenza della capacità del nostro Paese di formare una classe dirigente, fatta di professionisti estremamente preparati ad affrontare le sfide che i mercati mondiali e la congiuntura economica impongono. E questo la rende un luogo eccezionale per l’avvio di un progetto nuovo». Questa la chiosa trionfante, dopo un richiamo all’esperienza “a torto considerata utopica” di Olivetti: «È un modo per non rassegnarci a un lento e insopportabile senso di declino». Sebbene nessuno se lo sia chiesto, il meccanismo di selezione in questi casi è chiaro: l’università fornisce al donatore una rosa di nomi, per i quali lo stesso mecenate può fornire o meno un mero “gradimento”. La scelta finale, in ogni caso, tra i diversi nomi graditi del bouquet spetta ad una commissione indipendente dell’ateneo.
A chi dice che la stampa italiana soffra di una strana malattia, rispondete che nessuno – ma proprio nessuno – ne è immune. Arriva il momento della conferenza stampa e c’è un’unica raccomandazione: «niente quesiti che esulino dalla circostanza odierna», cioè – in sintesi – niente politica! La platea tace, i più goliardi scherzano: «Chi vince il campionato?», i fotografi scattano. Poi si corre al buffet e, mentre Monti e De Benedetti scambiano quattro chiacchiere davanti ad un caffè, i dubbi si insinuano tra le stilografiche. All’editore di Repubblica strappano qualche battuta sul governo in bilico: «I Premi Nobel per l’economia dicono che la colpa della crisi sia attribuibile alla politica? Non credo pensassero a noi. Perché, sapete, in questo momento proprio nessuno è in grado di pensare a lui (Berlusconi, ndr)». Poi altri assalti frontali, cui si concede generoso l’ingegnere che non avrebbe voluto parlare di politica: «L’Italia è al centro di una recessione che non sarà breve, per via di una politica debole che non riesce a fare le grandi riforme di cui abbiamo bisogno». Spazio anche all’economia: «Fiat sta spostando il baricentro fuori dal sistema italiano, dunque l’interesse ad appartenere a un’organizzazione datoriale italiana è evidentemente calato». Detto ciò, ammette di ritenere l’uscita di Fiat da Confindustria «un errore». Ed in cauda venenum: a suo dire, «Confindustria dovrebbe innanzitutto snellirsi moltissimo; ha un costo assolutamente spropositato a livello consolidato nazionale. Oggi costa più o meno 500 milioni all’anno, una cifra che non corrisponde a un ritorno sufficiente». Più chiaro di così si muore.