Forse non è un caso che a Bersani piaccia tanto Vasco Rossi e quei suoi versi da sopravvissuto in cui canta “sembrava la fine del mondo, ma io sono ancora qua. E già”. Infatti anche il Pd e il suo segretario “sono ancora qua”, malgrado gli scontri interni, l’assedio di Vendola, l’incombere, soprattutto nella coscienza dei militanti, della “questione morale”. L’esistenza in vita, di questi tempi, non è poca cosa per un partito e soprattutto per un segretario che è arrivato al potere con tanti dei suoi compagni che si davano di gomito per sottolineare, a torto, la sua inadeguatezza e la sua incombente caduta dal trono. Bersani li sta gabbando tutti resistendo alle accuse, alle insinuazioni, alla maldicenza. “Sono ancora qua”, appunto.
Tuttavia anche un osservatore privo di pregiudizi negativi su di lui, anzi ammirato dalla sua serenità e divertito dalla sua autoironia, non può sottrarsi allo sconcerto che viene dopo aver osservato che il Pd e il suo segretario rifulgono soprattutto nell’approvazione di idee altrui. La trama dei consensi, o degli omissivi silenzi, sulle diagnosi più disparate sulla crisi italiana ci infila, infatti, in una specie di labirinto culturale da cui con grande difficicoltà si riesce a intravvedere l’uscita.
Il Pd e alcuni suoi esponenti di punta sono riusciti nel miracolo di approvare la lettera di Bagnasco in cui la dura e tardiva critica alle dissolutezze berlusconiane si accompagnava all’esortazione all’unità politica dei cattolici, sono stati prodighi di convinta adesione alla lettera micidiale con cui la Bce proponeva una drastica cura della spesa pensionistica e dell’entità degli stipendi pubblici, hanno sostenuto la ragionevolezza del manifesto di Confindustria dopo aver inseguito le manifestazioni sindacali, per tacere del camaleontismo sul terreno più direttamente politico con la raccolta delle firme referendarie dopo aver inizialmente boicottato l’iniziativa di Arturo Paris per poi non firmare a livello personale il referendum; dell’inseguimento affannoso di Casini e del Terzo Polo dopo aver lanciato il Nuovo Ulivo fondato sul patto a tre con Vendola e Di Pietro. Del veltronismo sono stati demoliti tutti gli asset culturali tranne quel mirabolante, e tragico culturalmente, “ma anche” che riuscì a devastare l’immagine del partito appena nato.
La contaminazione fra le culture e il superamento delle ideologie che sono state il mantra della connotazione identitaria del nuovo partito si stanno via via risolvendo in una perdita totale di fisionomia di quello che sia avvia a diventare il maggior partito italiano. Gli storici potranno trovare numerosi precedenti in questa connotazione cangiante del Pd ricordando sia l’interclassimo democristiano, liberista e statalista, sia la formidabile costruzione ideologica del Pci amico dell’Urss e sostenitore della “via italiana”, oltre che la stupenda definizione berlingueriana del partito come “di lotta e di governo”, “conservatore e rivoluzionario”. Tuttavia queste “convergenze parallele” che davano un tono di eccentricità al dibattito politico italiano degli anni del dopoguerra venivano corrette dalla collocazione concreta dei soggetti politici nella vita pubblica. La Dc era il partito di governo, il Pci faceva l’opposizione. L’identità era data più che dagli schemi ideologici dal destino politico fissato in modo perenne dalla divisione mondiale e dalla guerra fredda.
Oggi siamo di fronte ad un’altra storia. Anzi siamo di fronte a una nuova storia. L’assetto capitalistico, per come lo abbiamo conosciuto, rivela la sua fragilità e con esso anche le conquiste del Welfare strappate dalle socialdemocrazie occidentali. Sono entrati in crisi grandi apparati culturali e in Italia il più grande, quello che ha consentito la nascita e l’espansione del fenomeno berlusconiano. Un partito politico che vuole sopravvivere alla rivolta incombente e al nuovo cambio di sistema e dei suoi paradigmi culturali dovrebbe dire che cosa è e che cosa pensa. Non a caso la Chiesa si sta affannando a fornire una via d’uscita al cattolicesmimo politico e gli imprenditori, anche con iniziative personali, stanno cercando di guadagnare un nuovo spazio nel dibattito pubblico. Persino gli euro-burocrati lanciano la loro “opa” sulla politica e sui governi. Tutto si muove e si mette in discussione. Tranne la sinistra. “Venghino, signori venghino” sembrano dire i suoi leader di fronte alle masse tumultuanti e alla pressione di intellettuali e di organizzazioni pesanti della società italiana. Solo che non siamo al circo ma di fronte allo spettacolo bello e terribile del mondo che cambia.
Invece di essere il luogo dell’elaborazione di nuove idee al servizio del paese e soprattutto di una sua parte, quella più colpita dalla crisi, la sinistra rischia di diventare come il ponte dell’amore che sul lungotevere romano raccoglie i lucchetti sentimentali di tutti coloro che dichiarano le proprie passioni. O se preferite la buca delle lettere in cui si raccolgono le missive più diverse e contrastanti che altri provvederanno a smistare e far giungere a destinazione.
Ci imbattiamo così una volta di più nel problema storico del Pd, partito dalle vocazioni mancate che non riesce ad essere di sinistra ma non diventa neppure il luogo in cui si addensa la volontà riformatrice e di governo dell’Italia che vuole cambiare. I partiti si sa sono costruzione complicate rese elementari dal punto di vista che decidono di esprimere e, come dicono i classici, dalla funzione storica che intendono svolgere. La sinistra di tradizione voleva elevare la condizione materiale delle classi subalterne e dilatare la presenza pubblica. Altri partiti invece accompagnavano idee solidaristiche con una difesa strenua del mercato. Non era mai successo che si candidasse al governo un partito di cui non si conoscono nè le ambizioni riformatrici nè il modello sociale. Né era mai accaduto che un partito, soprattutto un partito di sinistra, riuscisse nel miracolo di dar ragione al cardinale e alle associazioni gay, al sindacalismo estremo e ai manifesti confindustriali, alle narrazioni di Nichi e alle ambizioni di Pierferdinando, alle procure e al mondo garantista, che inseguisse la Lega e le sue contorsioni e approvasse contemporaneamente l’orazione unitaria del Presidente. Tutto e il contrario di tutto. Ma anche, appunto. Un tempo venivamo da lontano e andavamo lontano. Non era vero. Ora che siamo arrivati non sappiamo più che cosa siamo e soprattutto che cosa diventeremo.
Scrivo queste cose con malinconia e con affetto per l’occasione che la sinistra sta perdendo e soprattutto con lo sconcerto di chi osserva questo spettacolo nella certezza che nessuno replicherà. Perché ciò che più colpisce nella sinistra attuale e nella sua classe dirigente è il suo autismo, quel suo non ascoltare e non replicare, quel suo rinserrarsi nel proprio recinto e nelle proprie beghe, che la rendono a tanti di noi, pur idealmente vicini, così lontana ormai.