Perché milioni di persone piangono Steve Jobs? Certo, è stato «il visionario che ha ridefinito l’era digitale» (New York Times), «il visionario che ha cambiato il mondo» (Financial Times), «il pifferaio magico» (Corriere della Sera). Ma queste parole non bastano per spiegare il ruolo che Jobs ha avuto negli ultimi trent’anni. Nella commozione collettiva a cui assistiamo c’è il segno di una identificazione (quasi un misticismo) che va ben oltre il lutto per la scomparsa di un capitano d’industria. Ma identificazione con che cosa? Jobs non era generoso con il pubblico. Era un ectoplasma, un uomo riservato che si concedeva raramente, non aveva simpatia per i media, aveva trasformato la sua azienda in un bunker impenetrabile, chiuso a riccio come un servizio segreto. In realtà l’identificazione collettiva, che cominciò a diffondersi negli anni Ottanta ed è diventata un fenomeno di massa nell’ultimo decennio, scatta solo tra chi utilizza le tecnologie inventate da Jobs. Ma come ci si può identificare con i prodotti di un tecnologo?
Cominciai a interrogarmi sul genio di Steve Jobs verso la metà degli anni Ottanta. Quando comprai il Macintosh Classic (che uscì nel 1984 e ancora conservo in perfetta efficienza, come una reliquia) e mi domandai da dove nascesse il particolare fascino di quell’oggetto. Certo era bellissimo, e quando si accendeva, con quelle gradevoli note che ti accarezzavano piacevolmente i timpani e quella faccina che ti sorrideva al centro del piccolo schermo, sembrava che salutasse proprio te. La grafica era straordinaria nella sua esemplare semplicità, ma non era quello il nocciolo della questione. Fin da allora Jobs aveva capito che il computer avrebbe creato con le persone un rapporto intimo e “personale”, e avrebbe costituito una svolta nella nostra relazione con la tecnologia. Anche un’auto, un frigorifero, uno schermo tv possono essere straordinariamente belli (e i grafici italiani sono stati capaci, nel corso dell’ultimo mezzo secolo, di disegnarne di straordinari). Ma il computer rappresenta un punto di singolarità nella storia della tecnologia, non è solo un oggetto da usare ma un prolungamento del nostro cervello e l’eccezionalità di Jobs sta proprio nell’aver capito questa svolta culturale. (La cultura italiana non ha mai accettato questa svolta: penso da molti anni che Jobs, per le sue caratteristiche culturali, fosse il prototipo dell’anti-italiano).
All’inizio, quando si cominciò a usare il termine “personal computer”, quell’aggettivo fu interpretato in modo riduttivo. Molti pensavano che si chiamasse “personal” perché stava cominciando un’epoca in cui ognuno di noi ne avrebbe posseduto uno. Sbagliato. Jobs aveva capito perfettamente (e forse per primo) che il computer sarebbe diventato personale in modo assai più profondo perché avrebbe risucchiato dentro di sé gran parte della nostra vita e del nostro modo di percepire il mondo.
Prima di lanciare il Macintosh, Jobs aveva fatto il giro dei laboratori della Silicon Valley, e nei dintorni di Stanford, in particolare allo Xerox Parc, aveva scovato alcune tecnologie, il mouse e la grafica a finestre, che erano state inventate già da alcuni anni ed erano lì in attesa di un genio che le usasse per trasformare il computer in un oggetto non solo facile da usare, ma anche morbido, amichevole, in sintonia con il nostro modo di pensare. Lo schermo del computer diventava la nostra scrivania, il mouse controllava una manina che ci consentiva di spostare le parole e le frasi come semplici oggetti.
Non era solo una questione di ergonomia o di amore per la grafica, temi in cui noi italiani abbiamo raggiunto punte di eccellenza. Nella cultura di Jobs c’era molto di più: c’era la consapevolezza istintiva che la tecnologia stava diventando un fatto umanistico, che avrebbe presto permeato in modo così profondo la nostra vita da modificare non solo il nostro immaginario, ma anche i nostri meccanismi di produzione e di percezione della cultura. Il filosofo Georg Gadamer, in un’intervista rilasciata nel 1994, andò al nocciolo della questione affermando che «la modernità […] si prefigge non solo la comprensione, ma la ri-costruzione della realtà». (Una consapevolezza completamente assente dalla logora cultura italiana che si fa scudo dell’umanesimo dei classici per rifiutare l’innovazione e la costruzione del futuro.) Ebbene, Steve Jobs ha capito questa lezione prima di tutti e l’ha applicata con un istinto artigianale ineguagliabile.
Alcuni insistono sulla sua mania di perfezionismo, ma molti interpretano questa parola, “perfezionismo”, in modo riduttivo. La bellezza degli oggetti di Jobs non è (solo) formale: è concentrata nell’obiettivo di umanizzare l’interazione tra la macchina e le persone. Nel corso della sua vita ha trasformato in modo radicale quattro mercati: negli anni Ottanta quello dei computer (con il Macintosh), e nell’ultimo decennio quelli della musica (iPod), dei telefoni (iPhone) e probabilmente quello dei libri e dei giornali (con l’iPad). In tutti questi casi (come con il Macintosh) è riuscito a cogliere un bisogno e a soddisfarlo cercando in giro per il mondo le tecnologie più avanzate, e talvolta è stato grazie a lui se queste tecnologie sono arrivate a maturità. È stato in grado di interpretare i meccanismi profondi che collegano la nostra manualità e la nostra capacità di attenzione con attività intellettuali come scrivere, ascoltare musica, parlare al telefono, leggere libri e giornali. Ha creato oggetti che hanno cambiato in modo radicale non solo intere industrie ma soprattutto comportamenti collettivi che fino al giorno prima apparivano inattaccabili. La sua morte crea emozione perché le tecnologie da lui create hanno introdotto nuovi modi di percepire la cultura e i rapporti collettivi.
Umberto Eco, a cui certo non manca l’intelligenza, ha scritto che «il libro da leggere appartiene a quei miracoli di una tecnologia eterna di cui fan parte la ruota, il coltello, il cucchiaio, il martello, la pentola…». Mi vien da pensare che Steve Jobs gli avrebbe risposto: «Per quanto riguarda il libro, una tecnologia sostitutiva l’abbiamo già inventata. Per il martello ci si può lavorare».