D’ora in avanti, in quel mondo «glam» che invariabilmente si accompagna all’idea anche ostentata di ricchezza e di bellezza, quel mondo dove se per un caso della vita ci capita uno normale il primo pensiero che gli viene è: «ma questi quanto sono stronzi», ecco, in quel mondo si dovrà testimoniare – prova alla mano – che esiste una signora (una sola) che del suo essere immensamente snob ne ha fatto purissima forma d’arte, innovativa e clamorosa espiazione, meritevole quanto meno d’essere esposta alla Biennale di Venezia.
Questa signora si chiama Patrizia Reggiani, ha superato non abbondantemente la sessantina, e soggiorna da quattordici anni – evidentemente con sua buona soddisfazione – nel carcere di San Vittore, dove è rinchiusa per il motivo non trascurabile d’aver fatto ammazzare nel ’95 il marito Maurizio, erede della dinastia Gucci, così almeno sentenziò definitivamente la Cassazione condannandola a 26 anni.
Avrete letto, probabilmente, della scelta della signora di rinunciare alla semilibertà, beneficio che le spetterebbe avendo espiato più della metà della pena con la sola condizione di trovarsi un mestiere. Ecco, trovarsi un mestiere, affanno che la medesima ha rigettato con la forza di un’unica idea ispiratrice della sua intera e agiata esistenza: «Non ho mai lavorato in vita mia». Parole semplici ma ferme, che hanno immediatamente convinto il giudice di sorveglianza a (ri)spalancarle le porte della cella, dove ritroverà l’amato furetto Barbi e le adorate piantine.
La motivazione ha ovviamente riportato la signora all’onore di tutte le prime pagine e non poteva essere diversamente, dovendoci confrontare con i tormenti dell’economia mondiale, il lavoro che manca, i giovani che arrancano. Era una storia giornalisticamente perfetta, persino succulenta per stare da un’altra parte, per marcare una differenza tra mondi lontanissimi, per illustrare come meglio non si poteva l’antica idea di benessere e di privilegio, nel caso di Patrizia Reggiani proiettati paradossalmente all’ennesima potenza carceraria.
Perché preferire il carcere, nella testa di questa donna, è prima di tutto proteggere se stessa. Proteggere la sua dimensione, la sua intimità, il piccolo mondo antico racchiuso in un’angusta stanzetta, balocchi dell’anima che evidentemente la proiettano in una condizione di equilibrio cui non intende rinunciare. La cura delle piante, l’amore per il suo animaletto (il primo che portò in cella lo trovò impiccato per mano di compagne cattive) ne sono solo una piccola ma significativa testimonianza.
Che questa donna possa aver perso un certo anelito per la libertà e lo nasconda sotto una visione ultrasnob della sua vita passata, è sensazione che forse vale la pena d’essere considerata. Ricorda un po’ Chance il giardiniere, quando venne traumaticamente immesso nel caos delle strade e degli umani, lui che sino ad allora aveva vissuto il mondo dentro un televisore. Che oggi voglia ancora pervicacemente «fare la signora» è un’infantile visione del mondo che muove persino a tenerezza.