Nella nostra Italia il liberale Einaudi è un rivoluzionario

Nella nostra Italia il liberale Einaudi è un rivoluzionario

«Nella lotta e nella discussione si impara a misurare la forza dell’avversario, a conoscerne le ragioni, a penetrare nel funzionamento del congegno che fa vivere ambi i contendenti». Marx? Lenin? Mao Zedong? Macché, niente di più lontano: Luigi Einaudi. Pensate un po’ quanto ci siamo allontanati dal pensiero liberale, se alcuni passaggi di uno dei più illustri liberali italiani ci appaiono addirittura rivoluzionari (in realtà il liberalismo nasce rivoluzionario, ma non divaghiamo troppo).

Il 30 ottobre ricorrono i cinquant’anni dalla morte di quest’uomo di stato, uno dei pochi che l’Italia abbia avuto, tanto citato quanto poco frequentato. C’è un suo libro “Le lotte del lavoro”, ormai fuori commercio, la cui lettura dovrebbe essere resa obbligatoria a tutti coloro che si dichiarano liberali (nella maggior parte dei casi non avendo idea di cosa significhi). Certo, era stato scritto per confutare le ragioni del corporativismo fascista, ma rimane un testo di un’attualità sorprendente: la lotta tra padroni e operai è feconda, perché entrambi aspirano al medesimo fine: il bene dell’azienda. E solo dalla sintesi seguita allo scontro si può ottenere tale obiettivo.

«La condizione necessaria di un equilibrio duraturo, vantaggioso per la collettività, non è l’esistenza effettiva della concorrenza. È la possibilità giuridica della concorrenza. Altro non si deve chiedere allo Stato se non che ponga per tutti le condizioni per farsi valere e che consenta a tutti la possibilità di negare il monopolio altrui», scrive ancora Einaudi. Stato minimo, quindi, ma forte, con una funzione di regolatore.

Luigi Einaudi, piemontese di Carrù, in provincia di Cuneo, nasce il 24 marzo 1874. Da giovane manifesta simpatie socialiste e per un decennio collabora con “Critica sociale”, la rivista diretta da Filippo Turati. Smetterà di scrivere per testate di sinistra quando, all’inizio del Novecento, comincia a pubblicare sul “Corriere della sera”. Si laurea nel 1895, e dopo una breve esperienza in banca comincia a insegnare nelle superiori. Nel 1903 sposa una sua allieva, Ida Pellegrini. Dal 1902 insegna all’università. Come giornalista segue gli scioperi degli operai del Biellese e dei portuali di Genova, esperienza che gli farà maturare le tesi espresse più tardi nelle “Lotte del lavoro”.

Con l’avvento di Giovanni Giolitti – da lui considerato un grigio provinciale – le sue posizioni si fanno via via più moderate, il che non gli impedisce di criticare aspramente i capitalisti degeneri che vivono di sussidi statali, da lui definiti «trivellatori» sia in senso reale, perché trivellavano petrolio in Libia, sia metaforico, perché riempivano di buchi il bilancio statale. Se la prende anche con le cooperative socialiste, accusate di creare una classe di burocrati che vivono alle spalle dei contribuenti. Interventista, allo scoppio della Grande Guerra simpatizza da subito con le potenze dell’Intesa e, in polemica con i marxisti, afferma che la storia è mossa dai grandi sentimenti e non dagli interessi economici.

Dopo essersi avvicinato al movimento fascista, garante dell’ordine, se ne allontana in seguito al delitto Matteotti e denuncia l’indifferenza e il cinismo degli industriali che continuano ad appoggiare Mussolini. Aderisce all’Unione nazionale di Giovanni Amendola, è tra i primi a firmare il manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce, commemora commosso il suo ex allievo Piero Gobetti, morto esule in Francia, segnato dalle botte prese dai fascisti (significativamente proprio Gobetti pubblica per primo “Le lotte del lavoro”).

Nel 1925 Einaudi è costretto a rinunciare alla collaborazione con il “Corriere della sera” e l’anno successivo a lasciare la cattedra all’università Bocconi di Milano. Compare solo rarissimamente nel Senato ormai fascistizzato, ma va significativamente a votare contro la ratifica del Concordato tra Stato e Chiesa, nel 1929. Si dedica all’agricoltura (produce barolo a Dogliani) e visita alcune università americane. Dal 1922 è corrispondente dall’Italia per l’“Economist”. Prende le distanze da John Mainard Keynes dopo averne ammirato “Le conseguenze economiche della pace”. «Senza lepre non si fanno i pasticci di lepre» replica alla politica di interventi pubblici caldeggiata dall’economista britannico.

Dopo l’8 settembre 1943 va esule in Svizzera da dove rientra nel dicembre 1944 per andare a Roma ad assumere la carica di governatore della Banca d’Italia. Viene eletto alla Costituente, nel 1946 e influenza la nuova Carta, per esempio caldeggiando il bicameralismo perfetto e il referendum abrogativo. Memorabile il suo intervento in aula contro l’art. 33 della Costituzione che sanciva il valore legale del titolo di studio (come si sa, in questo caso fu sconfitto). Nel 1947 diventa vicepresidente del Consiglio e poi ministro del Bilancio, dicastero creato apposta per lui. Resta anche governatore, quindi assume un enorme potere nella direzione dell’economia italiana, contrastato sia dalla sinistra sia dagli industriali perché per combattere l’inflazione mette in atto una stretta creditizia.

L’11 maggio 1948 Luigi Einaudi viene eletto presidente della Repubblica. Durante la sua presidenza finisce l’éra De Gasperi, con il quale Einaudi aveva strettamente collaborato, nonostante la diversa estrazione politica. Viene aspramente criticato per aver promulgato la legge elettorale del 1953, la cosiddetta “legge truffa”, passata nonostante l’ostruzionismo delle sinistre, e per aver sciolto il Senato (che aveva una durata diversa dalla Camera). Com’è noto, il premio di maggioranza non è scattato. Einaudi era da sempre contrario al sistema proporzionale e favorevole a un premio di maggioranza che garantisse la governabilità.

Il mandato presidenziale scade nel 1955, Einaudi riprende a scrivere per il “Corriere della sera”, battendosi soprattutto per l’abolizione del valore legale dei titoli di studio. Pubblica con la casa editrice del figlio Giulio le utilissime – e neglettissime – “Prediche inutili”. Muore il 30 ottobre 1961, a 87 anni, per una broncopolmonite.  

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