Zanzotto, la voce del Nordest che chiamava “imbroglio” la Padania

Zanzotto, la voce del Nordest che chiamava “imbroglio” la Padania

«Questa modernità cannibale mi ossessiona. La stoltezza che circola si palpa come un vento». Non è un saluto col fazzoletto bianco, le lacrime agli occhi e i fischi del treno in partenza quello che Andrea Zanzotto, uno dei più grandi poeti e maestri del secondo ’900, ci consegna attraverso una delle sue ultime interviste rilasciate a La Stampa. Ma è un addio amaro, grave e composto. Come quando si saluta un maestro di scuola severo e intransigente da cui abbiamo sempre ricevuto bacchettate sulle nocche. Ma grazie all’autorevolezza e la puntualità degli interventi del quale, non possiamo più dimenticare ciò che ci ha insegnato. Andrea Zanzotto se ne va così, in punta di piedi, ma solennemente.

A Pieve di Soligo era nato nel 1921, a Pieve di Soligo è morto stamane, 90 anni appena compiuti, senza eccessive celebrazioni, il 10 di ottobre. Dal suo paese non si è mai allontanato troppo. E quando lo faceva, perché “costretto” a ricevere premi e menzioni, era sempre e comunque a malincuore. Lui che rifiutò una cattedra all’Università di Padova per stare vicino ai figli. Che temeva tanto l’aereo da viaggiare esclusivamente in treno, come quando nel 1973 per rientrare da Bucarest al capezzale della madre, attraversò tutta l’Europa in ferrovia. Dal suo paese ha sempre trovato l’ispirazione per i suoi versi e dal suo paese, un borgo di appena 12 mila anime perdute nella campagna trevigiana, riusciva a seguire il mondo intero, connettendosi con gli intellettuali più prestigiosi del panorama mondiale.

Pieve di Soligo, il «suo metro quadrato di isolamento», è stata per Zanzotto lo specchio della realtà intera. L’hortus conclusus, l’orto tranquillo circondato da alte mura secondo un’espressione cara a D’Annunzio e a Montale, da cui il poeta osservava il mondo e di là traeva le energie per sbrogliare la dolorosa matassa degli eventi. Con un po’ di ironia si può affermare che Andrea Zanzotto sia stato il primo e vero profeta della “glocalizzazione”, espressione ormai abusata per descrivere la riscoperta odierna della tradizione e della territorialità in un mondo che tende ad essere sempre più impersonale ed omogeneo, se non omogeneizzante.

L’impersonalità del paesaggio globale, la sua natura devastante e divorante ogni cosa, il paesaggio locale distrutto dall’avanzata del progresso che definiva «scorsoio» (come scrive nel suo ultimo libro-intervista pubblicato da Garzanti con il giornalista Marzio Breda), sono tutti temi divenuti capisaldi del pensiero e della scrittura di Andrea Zanzotto. Idee tradotte in poesia che, specie a partire dagli anni ’90, hanno fatto del poeta trevigiano uno dei rappresentanti più stimati delle istanze ambientaliste e antimoderniste, che lui lo volesse o meno.

Innegabile è però l’amore che Zanzotto nutriva verso la sua terra natale, non solo da un punto di vista psicologico, ma pure fisico, materiale. L’oggetto di gran parte della sua poesia e il centro della sua prima raccolta, Dietro il paesaggio (premiata da giudici del calibro di Vittorio Sereni, Salvatore Quasimodo e Leonardo Sinigalli), sono proprio la natura e l’ambiente attorno a Pieve di Soligo. Un contesto non solo famigliare e biografico, ma pure poetico. Che, con il passare del tempo e l’età, diventa la lingua stessa di Zanzotto, quasi con le sue parole il poeta volesse cogliere la nuda verità degli alberi, delle piante, della neve, dei fiumi e delle piogge di campagna. Così che la sua lingua, votata a questa missione, è diventata sempre di più un’indagine sull’essere, sulla vita dell’uomo e la sua ricerca di senso nel mondo.

Con Zanzotto il linguaggio tocca punte di penetrazione e profondità elevatissime. La sua ricerca di una poetica in grado di rompere la superficie delle cose e giungere alle verità ultime (Dietro il paesaggio, appunto), è sempre stata considerata di difficile lettura e interpretazione. Non solo dai lettori comuni, ma anche da critici e conoscenti del poeta. «Una zia di Zanzotto, proprietaria di una cartoleria, decise di esporne in vetrina alcune copie del primo libro del nipote», racconta Uberto Motta, professore di Critica Letteraria all’università Cattolica di Milano e studioso del poeta. «Le maestre di Pieve di Soligo corsero subito ad acquistare il libretto del compaesano improvvisamente divenuto celebre. Ma, puntualmente, tornavano indietro a lamentarsi perché non capivano niente». «La zia di Zanzotto, allora – continua Uberto Motta – capovolgendo l’accaduto appose questo cartellone in vetrina: “Mio nipote scrive poesie che addirittura le maestre non capiscono!”».

Non ci si può limitare a definire Zanzotto un passatista o un tradizionalista. Il «più padano dei poeti italiani», che faceva assai male alle retoriche leghiste quando definiva la Padania un “imbroglio”, utilizzò il suo isolamento per viaggiare attraverso le più svariate discipline ed essere sempre al passo con i tempi, che pure deprecava. La sua scrittura fu avanguardia, e avanguardia vera. Insegnò a molti come la poesia ermetica che mutuò da Friedrich Hölderling e Arthur Rimbaud poteva convivere con i linguaggi tecnici della psicoanalisi, della sociologia, addirittura dell’economia. Capì che il Novecento, il secolo della «morte di Dio» e della Poesia così come la conoscevamo, poteva essere narrato in versi non più con uno stile unico e onniscente, ma con più stili. Che un linguaggio non sarebbe bastato, ma più linguaggi, imparati dalle mille culture e sub-culture del secolo.

Andrea Zanzotto è stato il più contemporaneo dei nostri poeti, a volte più contemporaneo di noi. Lo sguardo che ci ha lasciato, specie nelle sue ultime opere, dimostra la visionarietà del profeta, ma anche la mitezza del pedagogo. Se attraverso la sua poesia è riuscito a cogliere l’essenza di un secolo che sta portando l’uomo alla sua autodistruzione spirituale prima ancora che fisica, dall’altro in lui hanno convissuto l’amore per l’insegnamento e la trasmissione del sapere. Zanzotto fu insegnante appassionato e puntiglioso. Si interrogò a lungo sull’importanza dell’istruzione e anche la frustrazione che da essa ne deriva. Ma sempre scorgendo nei bambini il nerbo «della società futura».

Una società futura che il poeta, salutandoci, avrebbe voluto forse vedere migliore. Non come «un paese dominato da una volgarità fatua e rissosa, inserito senza troppa coerenza e convinzione tra un’Europa invecchiante e le esplosioni demografiche vicine»,come disse a Marzio Breda che lo intervistava nel 2009. «Siamo sospesi tra un mare di catarro e un mare di sperma», continuava riferendosi all’Italia degli scandali politici e sessuali. Ma anche nello sconforto e nella condanna, nel buio dei tempi in cui si era trovato a vivere, Zanzotto sapeva trovare un scintilla di speranza. Come si legge in Sovrimpressioni, una delle sue ultime raccolte e la più sofferta nel guardare al futuro, anche all’interno della «glu glu glo globalizzazione» che distrugge il paesaggio e ogni paesaggio dell’uomo, esiste ancora la forza di guardare avanti. Saper cogliere questa forza dal «nero del fato», e saperlo fare nella natura che ci circonda, sarà la Bellezza in grado di salvare il mondo, scriveva. Come «una fogliolina che cadendo, sola, nel lontanissimo di un centro senza senso, in un dove eccentrico nel suo stare ad ogni cosa fornisce prove: luce in sé intenta a sfidarsi, a sfidare».

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