«Potere alla parola». Lo cantava nel 1992 nell’omonima traccia dell’album “Verba manent”, e lo mette per iscritto oggi su Twitter, dove ha raggiunto la veneranda quota di 28mila e passa followers. Quanto basta per diventare un passaggio obbligato per ogni fan italiano del social network con il passerotto blu. Come per le rassegne stampa di Fiorello o le #sukate mattutine del Trio Medusa, tanto per fare un esempio.
Lui è Francesco di Gesù, in arte Frankie HI-NRG MC, torinese, classe ’69, “mostro sacro” della scena hip-hop nazionale e, da qualche tempo, anche della scena Twitter. Il suo successo nel web va ben oltre il comprensibile seguito di fan e appassionati che lo seguono dai tempi di “Quelli che ben pensano”, o magari anche da prima. Frankie HI-NRG è un esempio di twittatore di successo in quanto tale. Sempre sul pezzo, non si lascia mai sfuggire il mood del momento. Ad esempio, è stato tra i primi a cogliere l’onda della #montifacts-mania, lanciandosi nella mischia a suon di freddure calibro 140 (caratteri). Altre volte scova la notizia del giorno prima ancora che lo facciano i quotidiani. Alterna commenti sui fatti di attualità, come la guerra in Libia, o le dimissioni di Berlusconi, a pillole di vita quotidiana: dov’è, cosa fa, con chi è, come e quando trovarlo per il prossimo concerto o dj-set.
«Su Twitter non puoi mentire, non puoi fare finta di essere quello che non sei, altrimenti ti “sgamano” subito» spiega in una lunga telefonata con Linkiesta. «Il bello di Twitter – spiega il rapper – è proprio questo: scrivi una cosa, gli altri ti rispondono. Puoi seguire ed essere seguito, bloccare ed essere bloccato. Hai 140 caratteri in cui devi dire qualcosa, ed essere chiaro. Puoi essere frainteso e scatenare un putiferio. Ed è lì che dimostri come te la cavi. Altrimenti, come fosse il martello di Thor, scatta il fatidico “defollow”. Una sorta di “non ti faccio più amico” delle elementari trasportato sul web».
Frankie HI-NRG definisce il suo rapporto con Internet «moderatamente controverso». Si considera un “veterano” della rete, e dell’informatica in genere: «Il mio primo computer è stato un Vic-20 acquistato nel 1983. Posso dire di appartenere a pieno titolo alla “old school”». Ai social network è approdato per gradi. Il primo passo l’ha fatto con il suo primo sito web, aperto sulla piattaforma Geocities: «Una delle prime “comunità aperte” della rete». Poi lo “sbarco” su MySpace che, però, non gli è mai piaciuto granché: «Nonostante da lì siano uscite grandi realtà, penso incida troppo sulla possibilità di esprimersi liberamente. Trovo che per la maggior parte degli utenti sia più che altro un pretesto per farsi pubblicità».
Poi, ovviamente, è arrivato Facebook. «Ho scoperto che c’era qualcuno che si spacciava per me, e scriveva vagonate di sciocchezze» racconta. «Così ho deciso di confrontarmi anche con quella realtà. Se non altro – ridacchia – per rientrare in possesso della mia identità». Frankie racconta di aver cominciato a scrivere e postare di tanto in tanto, sperimentando. «L’ho trovato subito molto interessante. L’idea, di per sé, è geniale. Ma nel complesso è un social network troppo farraginoso, con tanti orpelli inutili. Un po’ come certi elettrodomestici molto funzionali che ad un certo punto, però, devono poter fare tutto. O come certi software che avrebbero il pregio della leggerezza e della semplicità d’uso se non fosse per tonnellate di inutili funzioni aggiunte poco a poco, che tanti altri programmi sanno svolgere molto meglio». Esempio calzante. Ma nel tripudio di tante cose superflue, il difetto più grande che Frankie HI-NRG imputa a Facebook è paradossalmente una mancanza: «Non hai mai la sensazione di confrontarti con un individuo, dall’altra parte. Sembra un Grande Fratello senza confessionale. Non hai nemmeno la soddisfazione di un bel “vaffanculo” quando scrivi qualcosa che non piace. E in più è il rifugio di tante persone illetterate sotto l’aspetto informatico, persone che non hanno la minima idea del fatto che Internet non è solo Facebook».
Ecco perché la vera svolta è arrivata su Twitter. «Mi sono iscritto un paio di anni fa. Si può dire che sia stato una sorta di pioniere inconsapevole. Anche qui ho cominciato scrivendo qualcosa di tanto in tanto. Poi, dopo qualche mese di abbandono, ho scoperto che il profilo era seguito da oltre 2mila persone. Un fottìo di gente. Ho pensato: “Accidenti, sono molte di più di quelle che abitano nel mio isolato”. Da lì ho iniziato ad imparare che cosa fosse Twitter». E cos’è? «Un posto dove il mio agire invita gli altri a parlare. Con scambi brevi e immediati che, però, a differenza di facebook, danno la sensazione del contatto diretto, quasi personale. Su Twitter, ad esempio, posso leggere cosa fa Beyonce, e rispondere direttamente a lei. Me la fa sentire vicina, umana, “possibile”». In poche parole, “Twitto ergo sum”. «Direi piuttosto “Twitto ergo sumus” – corregge protamente Frankie – perché Twitter è molto più concentrato sullo scambio, sull’esistenza della moltitudine rispetto a se stessa. Dico una cosa, e gli altri mi rispondono. E c’è un pubblico molto più sveglio e attento».
In che senso? «Se non sei davvero tu a scrivere, la gente se ne accorge subito. Jovanotti lo capisci subito che twitta in prima persona. Roy Paci anche. Ligabue, twitta solo dell’ultimo album, dell’ultimo Dvd, dell’ultimo concerto, ha un ufficio stampa, o comunque qualcun’altro che scrive al posto suo».
È così che si passa da “Master of Ceremonies” a “Master of Tweets”. «Mi diverte molto, Twitter. Recentemente è diventata anche un’ottima fonte di informazioni: fino a poco tempo fa per avere le ultime notizie si cliccava sull’homepage di qualche grande giornale. Adesso basta dare una scorsa alla timeline di Twitter, dove anche per un giornalista è possibile conoscere le opinioni di questo o di quello senza nemmeno doverlo intervistare».
E ora, la domanda finale. Quella classica che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe trasudare acume e brillantezza, ma che riletta un paio di volte si rivela piuttosto cretina. Ma pazienza. Frankie, esistono “Quelli che ben twittano?”. «Cerco di interpretare la domanda». Grazie. «Se per “Quelli che ben twittano” intendiamo quelli che scrivono qualcosa soltanto per fare bella figura, per apparire bene, la risposta è no. Twitter è un media ancora nuovo. Mentre nella vita di tutti i giorni si sono sviluppati meccanismi di finzione plausibili, sui nuovi media ancora no. I leccaculo si sgamano subito. A maggior ragione su Twitter, dove ti frega la sintesi. Indubbiamente c’è chi ci prova. Essendo Twitter un’emanazione del suo utente, chi è falso cerca ovviamente di falsificarsi anche lì. Con il tempo si raffineranno le tecniche, e nascerà un codice di espressione falsa anche per i tweet».
Per il momento i “furbi” si individuano ancora facilmente. «Chi non ha nulla da dire si scopre subito perché magari allunga le vocali alla fine, si perde nei puntini di sospensione, usa frasi fatte e luoghi comuni». Un po’ come la “sindrome da caps-lock”: non ho niente di interessante da scrivere, ma se lo scrivo tutto maiuscolo, “urlato”, sembra qualcosa di importante. «Esattamente». Ride. È arrivato il momento di lasciarci. Saluti e ringraziamenti. Quando l’intervista sarà on-line ci risentiremo. «Così poi la ritwitto», dice.