Se ne sono andati

Se ne sono andati

Ivan Martin Jirous

(23 settembre 1944 – 9 novembre 2011)

A Praga, nei tempi del passato regime, farsi conoscere e anche imprigionare col nome d’arte di «Pazzo», poteva significare dieci passi in più, rispetto a un presente in apparenza sbarrato. In ceco quel termine – Magor – vuol dire anche visionario. Ivan Martin se l’era visto appioppare, in pieno Sessantotto, dal poeta Eugen Brikcius, e se lo sarebbe tenuto come una cute naturale. Essendo un poeta, un ispiratore di musica underground, un compagno di battaglia di Václav Havel, un bevitore senza soste di pentimento, né offese irreparabili al fisico e alla chiarezza delle idee. Anche per lui, e per un gruppo di artisti-lottatori come lui, il 1968 è stato l’anno durissimo e magico. D’altronde, la magia lì, in quella città – del Golem, di Rodolfo d’Absburgo, e del Castello – era da sempre considerata un carattere dominante e assai fertile.

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Lo si respirava, come una nebbia curativa, nonostante Gustáv Husák e la prosa introversa del Rudé právo (il giornale del Partito), lo si inspirava come l’ossigeno per sopravvivere nell’affollamento soffocante dei carri armati fatti arrivare da Mosca, lo si aggiornava orecchiando con estro tutto quello che l’Occidente aveva da offrire in termini di idee, di suoni, e di cultura alternativa. In quel frangente di particolare violenza, quel carattere diventava “metamorfosi”: se il regime, e i suoi puntelli sovietici, cercavano di ridurre i cittadini a insetti rinchiusi, questi mostravano all’aperto una corazza ancora più antropomorfa del normale, dandosi fuoco, in piazza, come ha fatto lo studente Jan Palach.
Oppure, quando erano forzati a un giorno per giorno sotterraneo, si reinventavano lingue, musiche, e codici ancora più underground dell’underground che andava per la maggiore Oltrecortina. Puntando, da artisti e da combattenti, a sputare in faccia a quel sistema fobico e claustrale, anche la propria qualifica di cittadini dell’universo. E così, il Sessantotto praghese, violentato nella sua primavera e nel suo gentile uomo di punta (il comunista Alexander Dubček), reagiva, nell’estate dello scontento, con un incantesimo in più. In forma di band. Un mese dopo l’invasione russa, il gruppo musicale The Plastic People of the Universe era formato: avevano tutti i capelli lunghi come moschettieri, incrociavano la lingua ceca all’inglese internazionale del rock, inglobavano, unico straniero, il canadese Paul Wilson, traducevano le canzoni dei Velvet Underground.
E l’organico strumentale era fra i più generosi: bassi, chitarre, violini, batteria, percussioni, clarinetti, sassofoni, contrabbassi. Il termine, geniale, “Plastic People”, era mutuato da Frank Zappa, ma la qualità beffarda del loro rock era consona alla situazione e all’inconscio radicato di quel Paese.

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I loro testi, le loro fonti, erano poeti, scrittori, e filosofi – come Egon Bondy, Ladislav Klíma, William Blake, Jiří Kolář – e avere come direttore artistico uno come Ivan Martin Jirous (ex laureato in storia dell’arte) prometteva almeno due cose: un coraggio espressivo-sperimentale, e la certezza di arresti, censure, e cancellazioni di concerti.
La guerra dello Stato e del Partito contro quei máničky («capelloni») può essere citata in ordine sparso, per qualche tappa: la messa al bando dei testi di Bondy negli anni Settanta, la totale interdizione di suonare in pubblico, i dieci anni complessivi di galera scontati dallo stesso Jirous (era come se il governo degli Stati Uniti avesse spedito dietro le sbarre Andy Warhol, che ispirava i Velvet Underground). O l’arresto in massa di tutta la band, nel 1976 – con l’accusa di «disturbo organizzato della pace» – che ebbe come risultato successivo la stesura di Charta 77, pensata in prigione da Václav Havel e altri compagni di lotta.

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In sintesi, il popolo era con loro, sottosuolo, e ogni tanto raso terra, perché la polizia non scherzava: come in quel 1974, nella meridionale città boema di České Budějovice, affollata da migliaia di persone che avevano viaggiato per sentire uno degli ultimi concerti all’aperto dei “Plastics” (era la loro abbreviazione), e che si erano subito ritrovate ammanettate, ingabbiate, e sotto processo. Soprattutto studenti. Ma di un Sessantotto resistente, che avrebbe tenuto, unico caso, per altri vent’anni, fino a vincere anche come fantasia al potere: con la rivoluzione del 1989, detta “di velluto”, e i poeti-scrittori chiamati a rappresentare lo Stato. Václav Havel presidente poteva essere visto come un’altra magia praghese, con un marchio underground: dato che il suo amico Ivan Martin Jirous e la sua “plastica gente dell’universo” era finalmente libera, e avrebbe continuato a cantare, ripetendo, come ai tempi della dittatura, che loro «facevano solo musica». I loro capelli sarebbero rimasti lunghi, sempre più grigi, senza incorniciare sguardi da vecchi: prudenti o nostalgici.

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Basil Lewis D’Oliveira

(4 ottobre 1931 – 19 novembre 2011)

Inglese e campione mondiale di cricket, originario di Città del Capo in Sudafrica, dov’era nato da genitori coloured. Una caratteristica che valeva l’esclusione da ogni ruolo pubblico, durante il regime dell’apartheid.

Anche in famiglia parlava raramente di come era diventato cittadino inglese, a trent’anni passati. Un’indicazione caratteriale centrata su una scelta: il suo valore sportivo, i suoi primati, erano incommensurabili rispetto al fatto di essere diventato “un caso” internazionale, e un simbolo di lotta contro il sistema segregazionista che era legge nel Sudafrica passato. Il suo valore è stato ricordato in modo preciso: un «battitore formidabile, fortissimo, elegante», con 44 test giocati per l’Inghilterra, il suo Paese d’adozione.
Un «talento immenso» dall’inizio: a Città del Capo, esercitandosi da ragazzo, lo dimostrava senza mezzi movimenti. Ma era un “colorato” (con ascendenze anche indiane), e questo valeva per escluderlo da squadre e partite di “first class”.

In Sudafrica, oggi, onorandolo come uno dei primi loro marchi di battaglia, hanno chiarito retrospettivamente questo punto: «Si può immaginare che cosa avrebbe fatto vedere giocando, se il suo Paese lo avesse ammesso, a vent’anni, fra il team nazionale che gareggiava in Inghilterra, durante una celebre trasferta del 1951».
La sorte, tracciata dalla geopolitica e anche da un debutto di coscienza mondiale sul tema dei diritti civili, lo faceva diventare il “D’Oliveira Affair” nel 1968. Si era già trasferito in Inghilterra (dato che dalle sue parti lo rifiutavano), era già diventato un adulte prodige riconosciuto del cricket (a 37 anni), faceva parte della selezione inglese che stava per partire per Città del Capo in quell’anno. Era la forza nuova che avrebbe dovuto gareggiare nel tour agonistico già organizzato. Ma il governo sudafricano (primo ministro il boero Balthazar Johannes Vorster, meglio conosciuto come John Vorster) faceva sapere che la presenza di Basil era «inaccettabile».

In pratica, l’apartheid come prodotto d’esportazione. Allora la Federazione britannica del cricket, e il governo inglese (primo ministro il laburista Harold Wilson), rispondevano ritirando la partecipazione della squadra e inaugurando un precedente. Anzi, creando un passo che, di fronte al mondo, valeva come esempio: il Sudafrica andava sanzionato progressivamente, con l’isolamento, da ogni manifestazione sportiva. Tanto per cominciare. Utile ricordare che il Sudafrica era un ex Dominion della Corona, e che, nel 1960, si era autoproclamato repubblica (uscendo anche dal Commonwealth), per mettere in pratica, senza i vincoli della legge inglese, il razzismo di Stato.
Il punto d’attacco funzionava, perché altre federazioni sportive, di un numero di Paesi che andava crescendo, avrebbero mano a mano disertato ogni trasferta nel Paese boero. Sarebbe durato fino al 1992. E Basil, senza probabilmente rendersene conto, aveva giocato una partita iniziale da proto-Mandela (senza naturalmente un processo e 26 anni di galera).
A Città del Capo, Ali Bacher, ex direttore della Federazione sudafricana del cricket, ha commentato la morte di Basil incastrando l’orgoglio nazionale nel rimpianto per qualcosa che non è stato: «D’Oliveira rimarrà per noi un gigante che ha trasformato lo sport in Sudafrica. Ha dimostrato che i neri possono diventare delle star internazionali, una volta che abbiano le stesse possibilità di partenza. Ma è triste pensare che Basil non abbia mai potuto giocare per il proprio Paese».

Srebrenka Jurinac

(24 ottobre 1921 – 22 novembre 2011)

Conosciuta, ascoltata, e ammirata nei teatri d’opera come Sena Jurinac. Lunga vita – novant’anni e un mese – di un soprano con una voce meravigliosa, che Mozart avrebbe probabilmente abbracciato riconoscendo in lei che interpretava i caratteri diversissimi di almeno quattro sue donne: Donna Elvira e Donna Anna (la nevrotica tradita e la virtuosa vendicativa in Don Giovanni) e Fiordiligi e Dorabella in Così fan tutte. Due ragazze di Napoli: la prima, «la modestia in carne» nonché travestita (da ufficiale), l’altra, l’infedele.

Per chi era adulto negli anni Novanta appena trascorsi, il nome Srebrenka evoca la città martirizzata – Srebrenica – dalle truppe serbe nel disfacimento jugoslavo. Ma è solo un’associazione alla larga (la radice è la stessa, e significa «d’argento»; «argentina»), perché Sena – di Travnik, Bosnia, figlia di un medico croato e di una ragazza di Vienna – ha mostrato, attraverso la musica e una voce piovutale addosso dal cielo, il massimo del piacere e della civiltà che da tre secoli circola da quelle parti.

La sua leggenda parte da un fondale in rovina ma anche di liberazione: il debutto viennese, alla Staatsoper, è del 1°maggio 1945, quando l’Armata Rossa entrava nell’ex capitale annessa al Reich. Aveva già esordito a Zagabria, tre anni prima, col carattere di Mimì, nella Bohème, ma è stato Karl Böhm a portarla a Vienna, a 23 anni, nel 1944. La scena di un teatro d’opera che funziona dentro gli orrori della guerra ha sempre qualcosa di equivoco, ma anche di promettente. Una specie di prova della rinascita: se si pensa alla Callas, giovanissima, ai suoi debutti ad Atene negli anni Quaranta. Quando la svastica sventolava sull’Acropoli.
In quarant’anni, intatti, di carriera la Jurinac ha trionfato, in particolare, a Londra, con le orchestre dei festival di Glyndebourne e di Edinburgo, mantenendo il repertorio mozartiano, ma con un ventaglio di altri celebri ruoli: Elisabetta (Don Carlo), Tosca, Madama Butterfly, Leonora (La forza del destino). E in Richard Strauss, soprattutto: in Arianna a Nasso (dove ha fatto la parte del “compositore”) e nel Cavaliere della rosa, dove è stata magnifica, tanto come Ottaviano, quanto nel ruolo della Marescialla. Ruolo e voce con cui chiudeva definitivamente la vita artistica, nel 1982. A Vienna, naturalmente. È stata una musicista completa in forma di soprano. È morta ad Augsburg (o Augusta), in Germania. La città d’origine di Bertolt Brecht.

L’immagine di questa settimana è una scena del film Seh-o-nim/Three and a half, di Naghi Nemati, Iran, 2011, presente al Torino Film Festival

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