Il gusto decisamente di preferenza che ha questo secolo per le materie politiche, è una conseguenza immediata e naturale, della semplice diffusione dei lumi, ed estinzione dei pregiudizi. Perché quando per una parte non si pensa più colla mente altrui, e le opinioni non dipendono più dalla tradizione, per lʼaltra il sapere non è più proprio solamente di pochi, i quali non potrebbero formare il gusto comune; allora le considerazioni cadono necessariamente sopra le cose che cʼinteressano più da vicino, più fortemente, più universalmente. Lʼuomo pregiudicato o irriflessivo, segue lʼabitudine, lascia andar le cose come vanno, e perchè vanno e sono andate così, non pensa che possano andar meglio. Ma lʼuomo spregiudicato e avvezzo a riflettere, comʼè possibile che essendo la politica in relazione continua colla sua vita, non la renda lʼoggetto principale delle sue riflessioni, e per conseguenza del suo gusto?
Nei secoli passati, come in quello di Luigi XIV, anche gli uomini abili, non essendo né spregiudicati, né principalmente riflessivi, della politica conservavano lʼantica idea, cioè che stesse bene come stava, e toccasse a pensarvi solamente a chi aveva in mano gli affari. Più tardi, gli uomini spregiudicati non mancavano, ma eran pochi: pensavano e parlavano di politica, ma il gusto non poteva essere universale. Aggiungete che i letterati e i sapienti per lo più vivono in una certa lontananza dal mondo; perciò la politica non toccava il sapiente così dappresso, non gli stava tanto avanti gli occhi, non era in tanta relazione colla sua vita, come ora che tutto il mondo è sapiente, e le cognizioni son proprie di tutte le classi.
Del resto, sebbene la morale per se stessa è più importante, e più strettamente in relazione con tutti, di quello che sia la politica, contuttociò a considerarla bene, la morale è una scienza puramente speculativa, in quanto è separata dalla politica: la vita, lʼazione, la pratica della morale, dipende dalla natura delle istituzioni sociali, e del reggimento della nazione: ella è una scienza morta, se la politica non cospira con lei, e non la fa regnare nella nazione.
Parlate di morale quanto volete a un popolo mal governato; la morale è un detto, e la politica un fatto: la vita domestica, la società privata, qualunque cosa umana prende la sua forma dalla natura generale dello stato pubblico di un popolo. Osservatelo nella differenza tra la morale pratica degli antichi e deʼ moderni sì differentemente governati.
Giacomo Leopardi (9 Novembre 1820)*
Dopo i provvedimenti economici, il mondo della vecchia politica (della Prima come della Seconda Repubblica) pensa che il Governo Monti abbia esaurito il proprio compito in quanto governo tecnico, ovvero in quanto governo senza progetto politico e al più dotato di una missione morale. Dunque per sua natura non politica, al massimo prepolitica. Si accumulano in questa visione molti errori, compreso il fatto che la morale debba essere una politica. La politica non è scissa dalla morale, ma una morale che pensa di essere sintesi politica non fa molti passi. Dʼaltra parte non è vero che la morale sia un ostacolo alla politica. È vero invece che cʼè un rapporto stretto tra moralità e politica, ma questa deve deliberare, e decidere misurando gli effetti di ciò che decide, illustrando le procedure che adotta, valutando e correggendo le possibili storture o ingiustizie che provocano le proprie decisioni.
Le riforme non sono mai un gioco a somma zero. Per questo lʼazione politica non è solo enunciazione di principi. O “arte di arrangiarsi”. In quel diverso equilibrio, sta la connessione tra morale e politica. Il Governo Monti dunque fa e farà politica. Farà scelte politiche. È giusto. Ed è opportuno. È quella cosa che si chiama “politica del fare”. Da non confondersi, né da identificare con quello che è stato un ritornello infinito, unʼossessione linguistica (dialettale si potrebbe dire) del nostro Paese. Finalmente. Così come è giusto che unʼopinione pubblica e le forze politiche abbiano una visione empirica e scettica delle cose che un esecutivo decide e per come le persegue. Ma poi resta che un governo deve fare e che per questo fare viene giudicato.
* Da Zibaldone di pensieri, pp. 309-311, ripreso da Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di Giuseppe Pacella, Garzanti, Milano 1991, vol I, pp. 255-256.