Alla fine è rimasto solo. L’ha lasciato anche Nicola Latorre, il più fedele di tutti. L’ultimo di una lunga serie di collaboratori e consiglieri ad aver mollato Massimo D’Alema. Si chiude un’era della politica italiana: salvo poche, irriducibili, eccezioni i dalemiani non esistono più.
L’ex capo del governo – oggi molto meno pomposamente presidente del Copasir – ha definitivamente perso le sue truppe. La ragione? Ogni ex dalemiano ha la sua spiegazione. Per qualcuno è colpa del suo carattere difficile, per altri della sua nobiltà d’animo. «È uno che brucia le amicizie – rivela chi ancora non ha superato il trauma della rottura – D’Alema è incapace di gestire sul lungo periodo le relazioni umane nate in politica». Puntuali tornano fuori le maldicenze sul suo ingestibile egocentrismo. E quella leggenda metropolitana che vorrebbe D’Alema capace di coltivare i soli rapporti fondati sulla soggezione. «Appena il suo secondo si emancipa entra in rotta di collisione».
E poi ci sono gli estimatori a prescindere. Quelli che anche se hanno preso un’altra strada continuano a venerare l’uomo. È il caso di Matteo Orfini, responsabile cultura e informazione del Pd, già dalemiano di ferro, che molti ormai considerano un ex. Stando alle sue parole, se i dalemiani non esistono più è perché l’ex ministro degli Esteri si è sempre «nobilmente» circondato di collaboratori politicamente autonomi. Di persone che pensavano con la propria testa. E che al momento opportuno l’hanno abbandonato. Non sempre per ingratitudine. «D’Alema oggi ha una posizione politica più defilata – continua Orfini – da presidente della commissione sui servizi segreti è diventato quasi un organo di garanzia costituzionale. Meno polemiche, meno dichiarazioni». Di conseguenza meno seguito.
Intanto la sua storia politica, almeno la più recente, è piena di ex amici. Da Pietro Folena a Gianni Cuperlo, passando per Marco Minniti e Peppino Caldarola. Tra gli addii più rumorosi c’è quello del giornalista Andrea Romano, un passato alla fondazione Italianieuropei e oggi direttore del think tank montezemoliano di Italia Futura. Una lista fatta anche di insospettabili. Come Walter Veltroni, il suo storico nemico. Oggi figure contrapposte, un tempo D’Alema tirò addirittura una volata per lui. Dopo le dimissioni di Renzo Foa dalla direzione dell’Unità, fu proprio l’ex premier a volere Veltroni alla guida del quotidiano. Era il 1992. D’Alema, prossimo alla segreteria del partito ma già leader del Pds, incontrò i rappresentanti della redazione per sponsorizzare il futuro sindaco di Roma. «È una delle nostre speranze, tocca a lui».
Gli ex dalemiani più famosi restano i Lothar: Claudio Velardi, Fabrizio Rondolino e Marco Minniti. Erano i suoi collaboratori negli anni al governo, con il tempo lo hanno scaricato tutti. I primi due sono passati al nemico. Velardi ha curato le campagne elettorali di Renata Polverini nel Lazio e di Gianni Lettieri a Napoli. Rondolino scrive sul berlusconiano Giornale di Alessandro Sallusti. Ma è il passaggio di Minniti nell’area veltroniana che per molti ha assunto il significato di un vero tradimento.
Minniti, all’epoca sottosegretario alla presidenza del Consiglio, smentisce ogni polemica. Il suo addio al dalemismo è maturato senza traumi e discussioni. Quasi una conseguenza inevitabile. Anche lui sostiene la tesi, quasi dogmatica, che i dalemiani non siano mai esistiti. «Una corrente classicamente intesa non c’è mai stata – spiega – perché mancava la capacità di irreggimentare la componente». Senza troppa gerarchia, a tenere unito il gruppo era «il riconoscimento della leadership di Massimo». Erano due gli obiettivi di quel gruppo dirigente: costruire una formazione riformista e riportare il partito al governo dopo la prima parentesi berlusconiana. «Raggiunti gli scopi, ognuno ha preso la sua strada»
Oggi Minniti guarda a quel periodo con nostalgia. «Con Massimo abbiamo condiviso un’esperienza politica per certi versi straordinaria». Politica d’avanguardia: «Il ricambio generazionale di cui oggi tutti parlano noi l’avevamo già ottenuto. A trentotto anni ero dirigente, a quarantadue sottosegretario. Ricordo ancora una mia visita ufficiale a Cuba nel 1994. Ero partito con l’obiettivo di ristabilire i rapporti diplomatici con il partito comunista cubano. Prima di incontrare Castro mi presentarono al suo aiutante di campo. L’uomo, sulla settantina, studiò bene la mia biografia. Davanti ai dati anagrafici miei e di D’Alema rimase a bocca aperta. Poi richiese stupito: “Ma da voi chi comanda veramente?”».
L’ex direttore dell’Unità Peppino Caldarola è fortunato. È l’unico ex dalemiano ad essere stato fregiato del titolo dallo stesso D’Alema. «I dalemiani non esistono – disse una volta l’ex segretario alla Camera -, l’unico è lui». Dopo un periodo di effettiva convergenza («anche se non ci siamo mai frequentati» precisa Caldarola) anche questo rapporto inevitabilmente termina. Colpevole un editoriale sul Riformista, in cui l’ex direttore dell’Unità sanciva la fine del dalemismo come esperienza politica. Ma soprattutto per le polemiche relative a una fotografia che ritraeva l’allora titolare della Farnesina a Beirut, sotto braccio con il deputato di Hezbollah Hussein Haji Hassan. «Avevo definito quell’immagine un pugno nello stomaco», ricorda Caldarola. «In Transatlantico, qualche tempo dopo, D’Alema mi disse che il pugno l’avrebbe dato volentieri a me».
Più recente il, presunto, addio di Matteo Orfini. Da sempre considerato uno dei collaboratori dalemiani più stretti, oggi qualcuno si stupisce della sua convergenza sulle tesi economiche del bersaniano Stefano Fassina. «Con D’Alema non c’è stata alcuna rottura – chiarisce il dirigente Pd – con lui ho lo stesso rapporto che avevo cinque anni fa. La pensiamo in maniera simile, ma non sempre abbiamo uguali opinioni». L’ultimo abbandono, in ordine tempo, è quello di Nicola Latorre. «È vero, Con D’Alema abbiamo avuto alcune divergenze politiche» dice Latorre al telefono. Sul tema delle alleanze «io continuo a credere che l’esigenza di un dialogo con le forze moderate di centro debba essere perseguita senza rompere con la sinistra». Ma non solo. Dal 14 dicembre scorso Latorre ha cercato con portare il partito sulla via delle urne, «mentre Massimo insisteva sul governo di transizione». Latorre è stato l’ultimo vero dalemiano, dopo di lui il vuoto. «Ma sono stato il più fedele» sorride.
Chi è rimasto? Pochi, pochissimi. Un esercito a ranghi ridotti. Anzi, «uno staff allargato» come ironizza un ex dalemiano. Tra i superstiti spicca Michele Ventura. Vicecapogruppo del Pd alla Camera dei deputati. Una figura poco nota al grande pubblico, ma di rilievo. Già vicesindaco di Firenze con il Pci, tre anni fa ha conteso a Matteo Renzi la candidatura a primo cittadino del capoluogo toscano. E poi c’è il gruppo dei giovani romani. L’europarlamentare Roberto Gualtieri, il giornalista Francesco Cundari (già direttore di RedTv, ora all’Unità con l’altro dalemiano Claudio Sardo). Il futuro del dalemismo? In molti indicano Marta Leonori, classe ’77. L’unica donna a correre per la segreteria del Pd laziale. Curiosamente in quota Ignazio Marino. Direttore della Fondazione Italianieuropei, lei preferisce prendere le distanze. «Io dalemiana? È un’attribuzione che non respingo ma di cui non voglio appropriarmi. Ho sempre cercato di tenermi fuori da certe etichette».